The power of the dog

Due fratelli molto diversi, Phil e George, gestiscono un ranch nel bel mezzo del Montana. Phil è il tipico cowboy, duro e senza freni, mentre George è completamente distaccato dalla vita da ranch del fratello e viene trattato come uno zimbello. George conosce Rose e decide di sposarla nonostante la riluttanza di Phil. I due si trasferiscono, con il figlio di Rose, nel ranch, e Phil non tarda a far capire cosa ne pensa del loro matrimonio.

Tipico film da festival acclamato dalla critica, non è facile vederselo tutto senza fare qualche sbadiglio. Soprattutto la prima metà del film è molto lenta e si concentra sul raccontare i quattro personaggi protagonisti: Phil (Benedict Cumberbatch), il fratello maggiore, severo e arrogante che comanda su tutto e tutti; George (Jesse Plemons), il fratello minore, senza un posto nella famiglia, sempre sfottuto; Rose (Kirsten Dunst), una madre sola, il cui marito si è suicidato da poco, che cerca di sopravvivere e mandare il figlio a scuola; e Peter (Kodi Smith-McPhee), figlio di Rose, un ragazzo mingherlino e con problemi di socialità. Si vedono molto bene e molto chiaramente le dinamiche che hanno questi 4 personaggi: Phil controlla tutto con la forza, George cerca soltanto un posto nel mondo, Rose vuole solo sopravvivere la giornata mentre Peter il mondo lo scopre a modo suo.

Il fulcro del film arriva con il trasferimento di Rose nel ranch di Phil. Lui, minacciato dall’arrivo di una sconosciuta nel suo territorio, continua a punzecchiare George dicendo che lo sposa unicamente per i soldi e per farsi pagare la retta scolastica del figlio. Quando lei arriva, lui continua a tormentarla prendendola in giro per ogni cosa che fa. Finché lei, sentendosi costantemente giudicata e senza nessuna libertà, si affoga nell’alcool, dalla mattina alla sera. Incapace persino di badare al figlio, Peter prova a cercare conforto in Phil, facendo una scoperta inaspettata: Phil nasconde una relazione con il suo mentore ormai morto.

Il film parla di solitudine, sotto ogni aspetto. Per Phil, è rimanere solo senza il suo amante sentendosi minacciato e senza protezione; per Rose, è rimanere sola senza il nuovo marito in una casa che non la vuole; per George, è rimanere solo senza un vero posto nella sua famiglia; e per Peter è rimanere solo senza una madre che si prende cura di lui. Anche la malinconia ha una grande parte, soprattutto per Phil che, nei momenti in cui non ce la fa più, torna sempre nei luoghi che condivideva con il suo mentore. Si capisce fin da subito che nessun personaggio si sente veramente a casa, non si sentono parte di dove sono. In particolare Rose, che pensava di aver trovato finalmente una situazione stabile con George, si ricrede dopo aver sofferto il tormento che le fa passare Phil la spinge in un vortice di degradazione (in poche parole, diventa alcolizzata) fino ad un collasso.

Gli unici due personaggi che riescono a raggiungere un obiettivo sono quelli che vengono raffigurati come i più deboli: George e Peter. George riesce finalmente a levarsi il senso di solitudine dopo aver trovato Rose, ma paradossalmente mettendolo addosso a lei. Il film si apre con una frase di Peter: “dopo la morte di mio padre, sono disposto a tutto pur di rendere felice mia madre“. Non vi dico cosa fa sto porello, ma effettivamente riesce nel suo scopo: alla fine vediamo George e Rose finalmente felici, sorridenti, come facevano soltanto all’inizio del film. È Phil quello che paga il prezzo di non ascoltare minimamente le richieste altrui. Lui è sempre severo e molto arrogante, non prova empatia verso nessuno e pensa unicamente a sé stesso. Soltanto alla fine, quando Peter scopre il suo segreto, si sforza ad essergli gentile, solo perché spera che lui non dica nulla a nessuno.

Il film è quindi un esplorazione di queste dinamiche, per questo motivo all’inizio è molto lento, ma prende un po’ più di piede una volta che si capiscono i meccanismi e cosa sta succedendo ad ogni personaggio. I dettagli vengono dati poco a poco, durante la visione ci si fa anche qualche teoria su cosa potrebbe succedere alla fine siccome ogni cosa è in un posto diverso, e si vede, ma è chiaro e tondo che presto o tardi cozzeranno una contro l’altra.

Tutti gli attori sono bravissimi nei loro ruoli, in particolare Cumberbatch e la Dunst, che in Phil e Rose sono molto credibili, nonché i personaggi più interessanti del film. Il film è anche nominato a mille mila Golden Globes tra cui miglior regia per Jane Campion, che non era male ma di regia non ci capisco nulla quindi mi fido.

Il film in sé non è male, ma bisogna stare molto attenti per beccare ogni dettaglio in questa dinamica malata tra i personaggi, perché di sicuro il film non aiuta alla concentrazione, anzi, esattamente l’opposto. Se volete recuperarlo in tempo per la notte dei Golden Globes il 9 Gennaio, lo trovate su Netflix.

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Competencia Oficial

Un uomo d’affari milionario, ormai molto in là con l’età, pondera su ciò che ha lasciato nel mondo come eredità. Risultato: non molto. Decide di creare un opera che lasci il segno producendo un film con la migliore regista e i migliori attori in circolazione. L’idea è bella su carta, ma far lavorare insieme questi artisti non sarà così facile.

Così come non è facile fare una commedia, ancor di più quando si tratta di prendere in giro il prodotto stesso che stai facendo (quindi un film che prende in giro un film). Eppure, questa coppia di registi spagnoli ci è riuscita alla grande. Una commedia geniale che non smette di farti ridere per tutta la sua durata. Inutile dire che gli attori sono bravissimi: Penélope Cruz nel ruolo della regista, Antonio Banderas è l’attore hollywoodiano tutto pieno di sé e Oscar Martínez l’attore alternativo che ama il teatro.

I due attori, che sono l’esatto opposto l’uno dell’altro, non mancano ogni occasione per punzecchiarsi e rinfacciare ogni premio o riconoscimento ricevuto (viene nominata più volte anche la Coppa Volpi per miglior attore di Venezia!) ma sempre restando nel ruolo: per Banderas il più grande riconoscimento è un premio vinto ad un festival, mentre per Martínez è il disegno fatto come ringraziamento da un bambino disabile. Avete capito che tipo di persone sono.

A badare a questi due c’è Penélope Cruz, una regista completamente fuori dall’ordinario che, per preparare i due attori al film, li fa partecipare a delle prove fuori di testa: provare degli orgasmi di fronte a centinaia di microfoni, dire le battute seduti sotto un masso gigante e persino distruggere tutti i premi vinti.

Ogni battuta e ogni scena rappresenta una frecciatina allo stato attuale della cinematografia. Per esempio, il film che viene creato non è in sé il prodotto di un idea o di una convinzione di un regista, ma semplicemente di un capriccio di un milionario che vuole lasciare qualcosa come eredità per il quale verrà ricordato. È anche geniale il personaggio di Oscar Martínez: il tipico attore legato al teatro che se ne sbatte di ricevere premi per le sue interpretazioni perché ama l’arte della recitazione. Ma appena sente la possibilità che questo film potrebbe andare agli Oscar, è già in bagno a provare il discorso di accettazione del premio. O anche il personaggio di Antonio Banderas, che è disposto veramente a tutto pur di dimostrare di essere l’attore migliore in circolazione (non dirò più di così!).

Finalmente si trova quindi una commedia molto ben ragionata, dove ogni scena vuole raccontare delle ambiguità che viviamo e accettiamo in questo momento senza nemmeno rendercene conto. Se riuscite a recuperarlo ne vale veramente la pena! Vi lascio qui sotto il trailer del film:

The Card Counter

Il ritorno sul grande schermo di Paul Schrader dopo l’incredibile First Reformed (consigliatissimo). Stavolta, seguiamo il particolare personaggio di William Tell (lo svizzerotto che c’è in me ha riso), interpretato da Oscar Isaacs, un ex militare che si è dato al gioco d’azzardo. Lui è meticoloso, controlla ogni minimo dettaglio per non perdere nessuna occasione. Un giorno, conosce Cirk (Tye Sheridan), un ragazzo carico di odio che vuole attuare una vendetta su un nemico che ha in comune con William. Insieme a loro c’è anche La Linda (Tiffany Haddish), una misteriosa finanziatrice che apre le giuste porte ai due.

Il film è pulito, chiaro, diretto, così come William è un maniaco del controllo, Schrader lo è con la camera, seguendo ogni minimo dettaglio. William è un personaggio molto particolare, il suo maniacalismo lo porta ad infastidire molte persone intorno a lui, finché si rendono conto che fare come dice lui è la cosa giusta. Lui fa di tutto pur di non cadere nell’ira, ma dopo aver conosciuto Cirk non riesce più a trattenere tutti gli impulsi che ha cercato di nascondere sin dall’inizio del film, e piano piano il personaggio si trasforma e conosciamo sempre di più il “vero” William, quello prima di finire in prigione per anni.

Nel film c’è una sequenza molto interessante. In un flashback conosciamo il nemico in comune di William e Cirk, il Maggiore John Gordo (Willem Dafoe). Il flashback è un piano sequenza in grandandolo dentro una prigione militare, dove dei soldati sono addestrati per torturare dei prigionieri di guerra, tra cui William. Nel piano sequenza, seguiamo il Maggiore mentre si addentra in tutte le stanze e spiega quello che stanno facendo, perché lo stanno facendo e come dovrebbero farlo meglio. Una scena abbastanza angosciante grazie all’uso originale del grandangolo che ci permette di vedere, in maniera deformata, le stanze nella loro interezza. Vediamo cose disumane deformate in modo disumano, come se anche Schrader in qualche modo volesse torturare e portare al limite ogni inquadratura di quella scena.

Tutti gli attori fanno un ottimo lavoro, tranne Tiffany Haddish, che in questo film è veramente un pesce fuor d’acqua. Da comica, non ha nulla a che fare in un film drammatico e si vede che non sa esattamente come comportarsi, è fuori luogo in ogni scena. Non perché fa battute, anzi, non le fa mai, ma proprio perché non riesce a fare un personaggio. Noi semplicemente vediamo Tiffany Haddish sera e basta.

Può essere che la fine è un po’ frettolosa, ma tutto sommato il film cattura l’attenzione e è anche carico di ansia. Non arriva nemmeno lontanamente al livello di First Reformed, ma non ci possiamo lamentare.

Dune

Si ritorna sul pianeta Arrakis: dopo 37 anni dal film di David Lynch, Dune torna al cinema. Il libro che ha fatto sognare tantissimi registi è finito nelle mani di Denis Villeneuve, che da qualche anno sta prendendo piede nel genere fantascientifico, e lo sta facendo molto bene.

Dopo la prova molto difficile nel fare il sequel di Blade Runner (per me, superata in pieno!), Villeneuve si cimenta in questa guerra galattica tra le casate Harkonnen e Atreides. Affiancato da un cast stellare (Timothée Chalamet, Zendaya, Oscar Isaac, Jason Momoa, Javier Bardem, e molti altri) ci presenta un film diverso da quello che tutti si aspettavano, ma per buone ragioni.

Come già si sapeva, in realtà il titolo non è Dune, bensì Dune: Part One, e ricopre unicamente la prima metà del primo libro della saga di Frank Herbert. Insomma, tutti siamo entrati al cinema pieni di speranze trovandoci di fronte un cast pazzesco, un regista che fa miracoli e la colonna sonora spaccatimpani di Hans Zimmer. Personalmente, devo dire che le aspettative che avevo sono state raggiunte. Ovviamente rimane sempre un po’ l’amaro in bocca di non avere un vero finale e non vedere nessuna mega battaglia epica, ma era abbastanza ovvio essendo solo la prima metà del libro.

Il film è quindi abbastanza lento (per essere un blockbuster di questa portata) e si concentra molto a raccontare l’universo in cui è ambientato piuttosto che passare alla solita azione insensata tipica dei film di questo genere. Siccome nel libro da cui è tratto i dettagli sono moltissimi, è praticamente impossibile capire tutto in una sola visione. È abbastanza chiaro che Villeneuve si è concentrato su alcuni argomenti sviluppandoli di più, e lasciandone altri un po’ così a vuoto. Per esempio spiega abbastanza bene cosa rappresenta l’ordine delle Bene Gesserit, ma lascia completamente in disparte cosa sia un Mentat. In poche parole, guardare il film è esattamente come leggere il libro senza andare a vedere le definizioni delle parole inventate da Herbert. È chiaramente un peccato, ma siccome quell’universo è così grande e complesso era impossibile fare meglio di come ha fatto Villeneuve.

I fan del libro possono stare tranquilli: ci sono veramente poche scene aggiunte o modificate, il resto è tale e uguale. Guardando le scene che passano ti rendi quasi conto a che capitolo sei in quel momento e quale scena ci sarà dopo: una ricostruzione fatta veramente bene in ogni dettaglio. Siccome è solo la prima metà del libro, il film non passa ancora moltissimo tempo nel deserto di Arrakis, ma quel poco che si vede ce lo mostra in tutto il suo splendore, trovando anche uno stratagemma per filmare la spezia. Proviamo veramente la sensazione di essere lì con loro, proprio come la si prova leggendo il romanzo.

Non c’è molto da dire per quanto riguarda gli attori. Tutti bravissimi ed azzeccati nei ruoli (non vedo l’ora che Dave Bautista torni nei panni di Rabban), in particolare mi è piaciuto un sacco Stellan Skarsgaard che interpreta il Barone Harkonnen. In una tuta che lo rende enorme, completamente pelato e in molte scene uguale a Marlon Brando in Apocalypse Now (quando fa il bagno nel fango è chiaramente un richiamo a lui) rende un personaggio che non avevo particolarmente amato nel libro molto più interessante di com’era su carta.

Non posso non nominare anche la colonna sonora fuori di testa del grandissimo Hans Zimmer. Non so cosa si sia fumato stavolta, ma ha veramente tirato fuori un capolavoro. Al cinema, le sue canzoni ti tiravano dentro con la forza nell’ambiente del film con tamburi e urla in lingue che ancora non ho capito quali sono. In molti dicono che ha un po’ esagerato, io gli dico grande Hans continua così.

Ovviamente, Dune: Part Two è già in produzione, con gran parte del cast già in sella e Villeneuve alle redini. Il regista ha veramente confermato di essere capace a fare tutto, persino di portare al cinema il più agognato libro di tantissimi registi, e con un ottimo risultato. Non ci resta che aspettare il 2023 per vedere cosa combinerà, e soprattutto se Hans Zimmer ha ancora un po’ di quella roba buona.

Spencer

Tutti ormai conoscono la storia della principessa Diana, chi più chi meno, non c’è quindi un modo nuovo per raccontarla. Ci ha provato Naomi Watts nel 2013 nel film Diana (abbastanza noioso) e, ancora più recentemente, Emma Corrin nella quarta stagione della serie The Crown. Da grande fan della serie, non potevo chiaramente perdermi il film su Lady D, molto curioso da come Kristen Stewart (diciamolo, Bella in Twilight) potesse interpretare la principessa. Devo dire che ho forse fatto un errore, entrando in sala con delle aspettative abbastanza alte, visto il bellissimo film, sempre biografico, fatto in precedenza dal regista Pablo Larraìn che ho amato: Jackie. Pensavo: “il Grandissimo ha fatto un capolavoro sulla biografia di Jackie Kennedy e adesso di butta su Lady Diana? Ottimo ci sto”. Era forse per colpa di queste aspettative che il film non mi ha colpito particolarmente.

Inizio col dire che la Stewart ha fatto un ottimo lavoro, così come il trucco e parrucco e i costumisti: ci somiglia tantissimo e lei si è calata molto bene nella parte. Tanto per cominciare, dalla voce. Molto fine, con un accento inglese perfetto, è veramente uno specchio della vera Diana. Così come i movimenti e il carattere (fortemente) sottomesso alla famiglia reale, in ogni dettaglio ti sembra di vedere la principessa Diana nello schermo. Ovviamente in molti urlano già all’Oscar (così come Natalie Portman era stata nominata per Jackie), io dico di aspettare di vedere quali altri film escono e di stare un po’ calmi.

Il film non è una biografia completa, mostra soltanto lo svolgimento del ritiro dei tre giorni di Natale della famiglia Reale nel loro castello (o come si chiama) in campagna (nessuna idea di dove sia, i ricordi sul film cominciano ad affievolirsi). Quindi tutto quello che Larraìn vuole raccontare sulla vita difficile della principessa, viene purtroppo condensato in questo evento di tre giorni. Di conseguenza è abbastanza palese che non ci troviamo di fronte ad una storia vera al 100%, bensì ad una ricostruzione di “come è secondo noi rispetto a ciò che sappiamo adesso”. In questi tre giorni lo spettatore vede tutto quello che tormenta la giovane Diana: la relazione malata con Carlo, l’amore per i due figli, il rapporto con il cibo, la pressione della famiglia, l’assenta completa di libertà e la malinconia del suo passato. Per questo il film sembra un po’ spinto nel mostrare tutto questo nel solo svolgimento del Natale. È ovviamente un mio parere, ma avrei preferito una narrazione come quella che aveva usato in Jackie: irregolare ma completa, noi viviamo e vediamo tutto quello che lei ha vissuto, arrivando addirittura a non voler vedere determinate scene, siccome abbiamo già visto come lei è rimasta turbata.

La fotografia, così come la regia, sono impeccabili, su questo non si può dire niente. Molto spesso Larraìn è molto vicino alla Stewart, quasi soffocandola nell’inquadratura. Tantissimi primi piani molto vicini e una messa a fuoco non sempre perfetta, come se non fosse importante quello che stiamo guardando, ma è palese che l’oggetto inquadrato non è a suo agio in quell’ambiente.

Un ultima cosa, a parte lei, tutti gli altri attori non ci somigliano per niente alla famiglia Reale (vedete nella foto).

Quest film non si può certamente criticare nella tecnica, è intoccabile, peccato che il regista ha preferito condensare una vita che sarebbe stato molto interessante vedere intera in un racconto di soli tre giorni. Per il resto, complimenti alla Stewart e ci vediamo a Febbraio agli Oscar.

Last night in Soho

Ellie, una giovane donne della periferia inglese, si trasferisce a Londra per coronare il suo sogno: studiare in una prestigiosa università di sartoria e lavorare nel mondo della moda. Prende un piccolo monolocale al primo piano di un immobile gestito da una gentile anziana signora nel quartiere Soho. Durante la prima notte ha un sogno vivido: è negli anni ’60, sempre a Soho, nei panni di Sandy, un altra ragazza in cerca di successo nella città. Ogni notte Ellie ha questi sogni, il suo legame con Sandy diventa sempre più forte, fino a quando scopre che Jack, il ragazzo di lei nonché suo manager, la obbliga alla prostituzione. Tra passato e presente Ellie cerca giustizia per la giovane Sandy.

Chi conosce Edgar Wright sa già a cosa va incontro quando guarda un suo film: montaggio veloce, scene svelte e tantissima creatività. In questo caso, è vero solo per metà. L’inizio del film non è veramente niente di speciale, per poi svilupparsi meglio verso la metà. Seguiamo soltanto Ellie alle prese con l’università e l’arrivo a Londra, un po’ lento, un po’ noioso. Andiamo avanti veloce e arriviamo alla parte più interessante del film: il contatto tra Ellie e Sandy. Ogni volta che Ellie dorme vive queste scene negli anni ’60 attraverso gli occhi di Sandy. Il film si fionda completamente in quegli anni, dalla scenografia ai costumi, e soprattutto nella musica che la fa da padrone in ogni scena. Anya Taylor-Joy fa un ottimo lavoro nei panni della misteriosa Sandy, che fino alla fine non sappiamo veramente cosa sta vivendo e come sta soffrendo. Persino quando si sveglia Ellie è completamente presa da ciò che ha vissuto in sogno: si tinge i capelli come Sandy e crea uno dei vestiti indossati da lei. Grazie alla forza che vede in Sandy si sente meglio con se stessa e trova l’autostima che prima non aveva.

Tutto crolla nella seconda parte, non soltanto la forza di Sandy, ma proprio anche la credibilità del film. Si viene a scoprire che Jack obbligava Sandy ad andare a letto con i suoi soci d’affari, e la sua vita diventa una completa sottomissione a quest’uomo che le ha dato il successo e vuole il pagamento con gli interessi. Il problema è che, ad un certo punto, Ellie vede in giro per Londra (da sveglia) dei fantasmi tutti neri vestiti eleganti. Proprio con effetti speciali fatti male, per tutta la seconda metà del film è pieno di fantasmi che la inseguono e lei che scappa e che non riesce più a distinguere la realtà dai sogni. Ecco, da qui il film mi ha un po’ perso. Sembra una puntata di Doctor Who, ma delle prime stagioni con gli effetti speciali di inizi 2000 che ti facevano piangere. Proprio un peccato.

Il tutto si conclude con un colpo di scena (?) finale che onestamente non fa né caldo né freddo. Dico solo una piccola parte del colpo di scena: tutti i fantasmi sono i tizi uccisi da Sandy per vendicarsi di quando è stata obbligata ad andare a letto con loro. Quindi ha avuto la sua vendetta e niente, tutti contenti.

Non capisco come mai Wright abbia fatto questa scelta di passare al paranormale in una storia che non ne aveva proprio bisogno, andava avanti molto bene da sola e teneva molta suspence. Dall’arrivo di questi spiriti ho perso completamente interesse in quello che stava accadendo, soprattutto dal momento in cui li usava per dei jumpscare veramente innecessari. Per quanto riguarda la sua regia, niente da dire, è l’Edgar Wright di sempre, e almeno questo ce l’ha lasciato.

Insomma, stavolta Edgar non mi ha convinto in pieno con questo cambio di genere a metà film, rimane però un film valido con un ottima regia, fotografia e colonna sonora di cui vi lascio un pezzo qui sotto, cantata proprio da Anya Taylor-Joy in persona.

The lost daughter

Opera prima di Maggie Gyllenhall (sorella di Jake) con un cast niente male: Olivia Colman, Dakota Johnson, Ed Harris e Peter Sarsgaard, marito di Maggie. Olivia Colman interpreta Leda, una professoressa in vacanza in Grecia per qualche settimana. In cerca di relax viene disturbata da una famiglia molto chiassosa che, durante una giornata in spiaggia, perde la figlia piccola e chiede aiuto a tutti pur di ritrovarla.

Il film si snoda tra il passato e il presente di Leda e vediamo la relazione che ha lei con le sue due figlie, che ha lasciato con il marito per un avventura con un altro uomo. Il senso di colpa la fa da padrone in questa storia, dove Olivia Colman mostra tutta la sua bravura nell’essere un attrice drammatica. La vacanza diventa una crescita interiore per Leda, che, ripassando le sue azioni passate, deve trovare un modo per fare pace con sé stessa.

Attraverso la ricerca della bambina, Leda rivede le sue figlie e come il suo istinto materno (secondo lei) ha fallito a farle crescere, lasciandole sole. Rivede questa solitudine nella madre che ha perso la figlia, e che è disposto a tutto per ritrovarla. La differenza tra i due istinti fa iniziare in Leda questa introspezione che la porterà a provare molte cose pur di arrivare ad una pace finale.

Anche se il film non è male, ad essere molto sincero, la storia non è molto interessante. All’inizio è molto lento e perdi quasi completamente interesse perché letteralmente non succede niente. Vediamo soltanto lei che arriva in Grecia e si sistema per iniziare la vacanza, per poi continuare con la sua routine giornaliera, quindi si, non succede proprio niente. Non ricordo a che punto del film inizia più o meno la storia, ma è già ad un punto in cui avevo già perso interesse. È interessante il viaggio interiore che fa Leda, ma 2 ore sono un po’ troppe per una cosa del genere. Il film mostra anche molti flashback di quando lei era giovane, con il marito, le figlie e l’inizio della storia con l’amante, che ho trovato molto inutili. È vero che ti fanno un idea più chiara di cosa lei ha passato e di cosa ha fatto passare alle figlie, ma sono troppe e troppo lunghe e ti fanno di nuovo perdere interesse.

Devo anche aggiungere che non è per nulla il mio genere di film, e ne ero consapevole quando lo guardavo, quindi è possibile che sono entrato con dei pregiudizi che già mi hanno fatto partire male. In ogni caso, Olivia Colman è sempre bravissima, su questo niente da dire, e a quanto pare la critica sta amando sto film che ha già ricevuto molti premi, quindi di base possiamo fare i complimenti alla Maggie per l’inizio di quella che sembra una lunga carriera. Se volete recuperarlo uscirà il 30 dicembre su Netflix.

Il buco

Frammartino ci porta nelle profondità dell’Abisso di Bifurto, nel bel mezzo della Calabria. In questo misto documentario fiction, vediamo gli speleologi del Nord che nel 1961 si sono recati là per scoprire questo nuovo luogo che ai tempi fu il più profondo d’Italia. Il loro obiettivo: trovare il fondo e farne una mappa.

Da spettatore ignorante, non ho la più pallida idea di come abbiano girato questo film. Sono veramente scesi nell’Abisso? O è tutto una ricostruzione? È questo il livello di dettagli nel film che ti fanno dubitare che sia una fiction (ovviamente, a parte il fatto che è ambientato nel ’61). Si inizia con gli speleologi che arrivano sul luogo, costruiscono il loro campo e finalmente inizia la scarpinata. Scendiamo con loro in questi cunicoli strettissimi e bui che danno tutto il senso di claustrofobia presente nella realtà. Se sono effettivamente entrati nell’Abisso con le telecamere, tanto di cappello.

Il film, così come l’impresa, è molto interessante e devo dire che la prima metà del film mi ha tenuto incollato allo schermo. Ma ha anche molti difetti. Il film non è parlato, non sentiamo mai i discorsi degli speleologi (magari solo qualcuno, ma non sono mai in primo piano, unicamente in sottofondo). Da un lato, tutta la concentrazione dello spettatore va ai paesaggi e agli eventi, non guardiamo nemmeno di striscio i personaggi siccome sono cose secondarie che noi seguiamo soltanto per arrivare in un altro luogo da scoprire e guardare di nuovo. Dall’altro lato, rende il tutto un po’ più pesante, siccome dopo metà film le cose che vediamo si ripetono: il campo degli speleologi, le colline lì intorno con le mucche, e le caverne infinite dell’Abisso che, diciamolo, sono tutte uguali. Quindi a metà film hai praticamente visto tutto il film. L’unica cosa che vedi di nuovo è la creazione della mappa a mano a mano che loro scendono (anche molto interessante ma si vede raramente nel film).

Scelta interessante e in parte vincente quella di fare un film senza dialoghi mettendo come protagonista l’Abisso in sé, ma rende un film che poteva essere ancora più interessante solo più pesante. Era comunque la mia unica proiezione in Sala Grande e ringrazio che le sedie sono molto comode e il silenzio del film ha permesso un ottimo riposino.