TÁR

Non è ancora uscito in tutte le sale, ma dobbiamo parlarvene ora perché è uno dei 5 film drammatici dell’edizione Golden Globe 2023, insieme ad Avatar, Elvis (?), The Fabelmans e Top Gun.

Tár di Todd Field, 158 minuti, è un film autoriale e complesso, che ho dovuto riguardare per scrivere la recensione.

Nel vortice di Venezia79, alle 8 di mattina su una sedia scricchiolante del Palabiennale, un film del genere è stato solamente fonte di noia e di necessita di uscire a metà per poter andare a bere un caffè e fare colazione.

A suo tempo aveva ricevuto solamente 2 stelle, ora, alla seconda visione, il mio parere non è cambiato.

L’opera è un elogio a Cate Blanchett (che vince a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), Todd Field decide di scrivere un film fatto a misura dell’attrice, e lei si trasforma e diventa per oltre due ore e mezza Lidia Tar, una direttrice d’orchestra, genio della musica, molto ricca, molto potente, molto brava, borghese e super acculturata.

Il film inizia con una lunga intervista a Lidia, quasi fosse un documentario, la seguiamo per oltre 20 minuti sul palco di una grande sala con il pubblico, a tenere quasi una masterclass intervistata da un giornalista di un rinomato giornale americano, Lidia dovrà dirigere la 5° sinfonia di Mahler, a Berlino.

Tutta la prima parte del film tiene la struttura quasi di un documentario, scene molto lunghe, molti “monologhi” della protagonista per conoscerne anche la sua vita privata.

Da metà in poi il film si trasforma, iniziamo a capire la vita contorta di Lidia, tra la sua relazione con la compagna, con la figlia, con il pubblico, i suoi musicisti, cerchiamo di essere parte della sua storia ma ne rimarremo sempre fuori (io perlomeno).

Neanche riguardando il film una seconda volta con calma in casa mia, sono riuscito a farmi piacere questo film, per me rimarrà per sempre un film-elogio a Cate Blanchett (bravissima, incredibile, wow).

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M3GAN

Il cinema è imprevedibile: nel 2022 sono usciti i blockbuster più proficui della storia del cinema, ma anche quelli con una perdita incredibile, per non parlare di tutti i film di nicchia che hanno fatto un successo strepitoso. Insomma, mai come oggi non si sa mai cosa aspettarsi quando si entra in sala, sarà la solita solfa con niente di nuovo? Avrà fatto successo solo grazie al marketing aggressivo sui social? O è un film veramente valido?

Entrando in sala per vedere M3GAN le mie aspettative erano meno di zero. È il solito film horror impacchettato di jump scares, trama banale ed ecco tutto (insomma, come Smile). Mi sono sbagliato? Eccome se mi sono sbagliato! Intendiamoci, non è il capolavoro del secolo, la trama non è così originale, gli attori non sono incredibili e il finale è ridicolo, ma ha molto di più di quel che ci si aspetta.

Gemma è la programmatrice di punta della multinazionale di giocatticoli Funki, pronta ad uscire con il suo nuovo prototipo, Megan appunto. Per testarla, le fa conoscere Cady, sua nipote, che ha appena perso i genitori in un incidente stradale. Cady è entusiasta del suo nuovo giocattolo iper tecnologico, ma Megan si vede molto di più di un semplice soprammobile…

Mi aspettavo una copia sputata di Chucky e, nonostante il concetto di “bambola assassina” ci sia lo stesso, i due sono molto diversi. Niente a che fare con spiriti e anime, M3GAN è un intelligenza artificiale che, più passa tempo con il suo utilizzatore primario, più impara e più la protegge. So cosa stante pensando, questo film potrebbe tranquillamente essere un episodio qualsiasi di Black Mirror, niente di nuovo. Assolutamente, avete pienamente ragione, la qualità non è così lontana da Black Mirror. Per un horror del genere non ci si aspetta una trama elaborata, e nemmeno una vera spiegazione del perché il cattivo compie azioni cattive, eppure M3GAN passa molto tempo a raccontare non solo la nascita della bambola, ma anche la situazione sia economica che sociale in cui sta nascendo. Lo spettatore vede chiaramente perché Megan è stata creata e nulla è tirato fuori dal caso solo per avere una bambola omicida nella trama, la storia ha un senso, ed è anche molto interessante.

La cosa che più mi ha colpito è come Megan viene sfruttata. Mi spiego: non è soltanto lì per impazzire ed uccidere tutti, bensì fa uscire ben più di qualche riflessione. Iniziando dalle basi, la trama si concentra molto sull’Intelligenza Artificiale e le sue possibili evoluzioni, fin qui nulla di nuovo, potrebbe essere un Terminator qualsiasi. Finché si sviluppa e si riflette sul concetto di giocattolo: qual’è il vero scopo di Megan? Giocare coi bambini? Aiutare i genitori? Più Megan passa tempo con Cady, più il loro legame diventa forte (non dimentichiamo che i genitori di Cady sono appena morti, e la zia Gemma è molto distante per via del lavoro). La bambina non vuole fare altro che passare del tempo con la sua bambola iper-tecnologica, invece di stare con persone della sua età o addirittura parlare con la sua tutrice. Le critiche sono abbastanza ovvie, c’è un fondo di verità in tutto quello che il film espone, e la domanda che hai in testa alla fine sarà: qual’è la differenza tra una Megan e un iPad? Si ok, l’iPad non ammazza nessuno, ma avete capito il concetto.

È molto interessante anche il personaggio di Gemma, la zia e tutrice di Cady. Lei è la fiera creatrice di Megan, pronta a fare dei gran soldi grazie al giocattolo che porterà tutti gli altri giocattoli alla discarica. Dopo la morte della sorella, le viene chiesto di prendere in mano la vita di Cady, nonostante non sia per nulla adatta ad un lavoro così grande e difficile. Per tutta la sua vita ha messo come priorità assoluta il lavoro, l’arrivo della nipotina orfana le obbliga a dover rivedere ogni sua abitudine. Inizialmente la relazione tra le due è molto molto distanze, poi Gemma si rende conto di poter usare Cady per creare dei giocattoli migliori, e da lì finisce il primo prototipo di Megan. Nonostante Cady ci provi sempre ad avere un minimo contatto con la zia, lei vede la relazione in modo completamente differente e, ancora una volta, legato al lavoro, l’unica cosa che Gemma conosce. Solo alla fine (per ovvi motivi) le due si avvicinano definitivamente.

M3GAN è un horror? No, assolutamente. È piuttosto un film fantascientifico, con qualche risata qua e là e un finale proprio brutto. Eh si, come spesso accade, gli ultimi minuti di questo film hanno proprio rovinato tutta la magia che è stata creata in precedenza. Me lo aspettavo? Certo. Sono comunque deluso? Purtroppo si. In ogni caso, M3GAN è un film che mi ha estremamente sorpreso, e mi dà qualche speranza per il genere horror, che io amo tanto e da anni viene sempre più maltrattato. Ci vediamo tra qualche anno, quando M3GAN 2 uscirà e diventerà il film con più incassi della storia del cinema.

The Fabelmans

Ormai lo so, per me guardare un film senza lasciarmi trasportare dalle emozioni, e riuscire ad analizzarlo e scriverne in modo oggettivo senza attaccarmi emotivamente, è completamente impossibile. Cercherò di parlarne senza farmi tonare il magone in gola e la voglia di piangere ripensando a tutto quello che questo film ha smosso dentro di me senza neanche me ne accorgessi.

Spielberg, al 34esimo film e pochi giorni dopo il suo 76esimo compleanno, ci trasporta nuovamente nel suo mondo, sempre più in profondità, sempre più nella sua vita personale.

Una spiegazione individuale di quello che è per lui il cinema, di quello che è la famiglia e di tutto quello che ogni giorno sono gli ostacoli della vita verso le propie passioni e i propri sogni.

Il film si apre con la prima esperienza cinematografica del piccolo Sammy Fabelmans, figlio di un ingegnere provetto e una madre artista. Questa divisione famigliare sarà presente nella crescita del ragazzo, che già dall’inizio della sua “carriera cinematografica”, inizierà a creare cortometraggi unendo l’immensa quantità d’inventiva tramandatagli dalla madre e l’ingegnosità tecnica dal padre, per risolvere problemi cinematografici pratici come quello di dare l’impressione che le pistole di ragazzini cowboy in una delle sue prime pellicole, sparino davvero.

“I film sono sogni che non dimenticherai mai” gli sussurra la madre prima di entrare nella sala cinematografica dalla quale nascerà tutta la storia del ragazzo.

Un incidente sullo schermo rimarrà scalfitto nella memoria di Sammy, che tornato a casa cercherà di riprodurre l’incidente con i suoi giocattoli filmandoli e rendendo cosi l’incidente, riproducibile tutte le volte che vorrà “fino a che avrà affrontato la paura di quella scena”.

La storia diventa anche una crescita forzata di adattamento dei ragazzi, che, dovendo seguire il padre nei suoi cambi di lavoro, si spostano da uno stato all’altro dell’America degli anni ’60-’70. Sammy continuerà a seguire la sua passione, realizzando piccoli cortometraggi e un filmato rappresentativo della gita di fine anno della sua nuova scuola. Con una cinepresa prestatagli dal padre della sua ragazza, Sammy filma tutti i giochi fatti sulla spiaggia, e rappresenta in maniera eroica quel ragazzo che qualche settimana prima l’aveva bullizzato davanti a tutti i suoi amici.

Quelle immagini proiettate sullo schermo davanti tutti alla festa di fine anno, dimostrano il potere del cinema e quello che delle “semplici” immagini possono produrre.

Gli ultimi momenti del film poi, sono una vera lezione che Spielberg decide di mettere in atto: tutto quello che conta nel cinema non è necessariamente quello che si racconta, ma il come lo si decide di fare. Il cinema è il punto di vista dell’artista che rende unica una situazione.

In questo incredibile film, Spielberg riesce a raccontare sé stesso, i suoi sogni, una sua autobiografia di quello che ha imparato nei suoi molteplici anni nell’industria cinematografica.

Quasi in un linguaggio fiabesco, Spielberg ci dice di seguire i propri sogni, ascoltare quello che ci fa felici nel profondo,  dedicarci alle proprie passioni, e anche se magari si dovrà un po’ soffrire, verremo ripagati di tutti, perché se qualcosa andrà male, ci sarà sempre una sorpresa dietro l’angolo.

Glass Onion: A Knives Out Mystery

Il detective più famoso del mondo è tornato! Era senza dubbio difficile avere un cast all’altezza del primo Knives Out, ma Rian Johnson ce la mette tutta: Janelle Monae, Edward Norton, Dave Bautista, Kathryn Hahn e Kate Hudson compongono lo schema di sospettati in questo riuscitissimo sequel antologico.

Dopo aver risolto il caso della famiglia Thrombey, Benoit Blanc questa volta si reca in Grecia, dal ricco imprenditore Miles Bron e la sua banda di amici, i disgregatori. Il multimiliardario organizza ogni anno un weekend di festa nella sua isola privata, e quest’anno il tema è delitto: la banda deve scoprire chi è l’artefice dell’assassinio di Bron stesso, che si terrà durante la cena. Le regole sono chiare: ognuno deve investigare per conto proprio, gli indizi sono sparsi per l’isola, e una volta che Bron è “morto” non potrà più parlare con i propri amici. Tutto sembra facile, ma come mai Blanc è stato invitato, visto che Bron non gli ha inviato nessun invito? Ma soprattutto, come mai questa volta è venuta la vecchia partner d’affari di Miles, dopo che è stata tradita dagli amici? Il gioco si fa sempre più fitto di misteri, mentre noi seguiamo Blanc e i suoi stravaganti metodi investigativi.

Incredibile ma vero, Glass Onion riesce a superare il suo predecessore. È divertente, pieno di suspence e colpi scena, non annoia mai e intrattiene moltissimo, anche più del primo. Johnson si sta divertendo un sacco a riscrivere le regole degli whodunnit (i gialli in poche parole), cambiando la narrativa a seconda di quello che i personaggi e gli spettatori sanno o non sanno. Proprio come in Knives Out, Johnson è molto abile a concentrare l’attenzione dello spettatore esattamente dove vuole lui, mentre succede altro proprio sotto il suo naso. Non nego però che in questo capitolo, soprattutto nella seconda metà, arriva un po’ all’estremo, rendendo quasi impossibile per chi guarda il film svelare il mistero dietro alla storia. Ma in fondo è quasi sempre comprensibile, visto che vediamo varie scene da diversi punti di vista e che se desse determinate informazioni fin dall’inizio la trama avrebbe lo stesso problema della prima: si sa già tutto (nel primo già si sa chi è l’assassino) e il film si concentra sullo scagionare l’innocente. Qui no, la trama è semplice, una weekend di giochi tra amici, il bello è vedere come, con l’aggiunta di Blanc, tutto crolla.

Il film lo si può suddividere in due parti: la prima dal punto di vista di Blanc e la seconda dal punto di vista di altri personaggi. Viviamo due volte la stessa giornata e, con le sole informazioni che ha Blanc nella prima parte, non riusciremmo mai a capire la seconda, e viceversa. Sono due tasselli che si incastrano alla perfezione di un puzzle immenso che Johnson ha scritto magistralmente. Ogni dettaglio è piazzato con un senso e, una volta svelato il mistero, rimani lì a pensare: “ma certo come ho fatto a non vederlo!”.

Questa tecnica di dividere i punti di vista è quello che rende la trama sia interessante che altamente improbabile. Interessante perché il film è in costante evoluzione, le informazioni che hai continuano a cambiare e ad evolvere scena dopo scena. Persino Blanc lo dice: il mistero lo deve svelare strato dopo strato, fino ad arrivare al centro, proprio come la cipolla del titolo. Improbabile perché alcune informazioni e scene sono impossibili da immaginare (o almeno, per me lo erano!). Di conseguenza rimane un mistero impossibile da decifrare per lo spettatore. Proverò a darci una seconda visione per vedere se si può capire tutto nella prima parte oppure no.

Daniel Craig è sempre perfetto nei panni di questo investigatore che a prima vista sembra un tonto, ma una volta che inizia a parlare zittisce tutti in pochi secondi. L’accento è una delle cose più belle, sia in questo che nel primo film. Il cast nell’insieme è perfetto: Edward Norton praticamente interpreta sé stesso, un ricco stronzo, Dave Bautista pure, un pompato ignorante. A parte gli scherzi, il film è pure ambientato e girato durante la pandemia, e fa strano vedere una scena in cui gli attori hanno le mascherine (ma è soltanto una tranquilli). E devo dire che ha fatto un po’ male vedere Blanc giocare ad Among Us, con dei camei d’eccezione: Angela Lansbury e Stephen Sondheim.

Johnson è riuscito a prendere il succo della sua prima creazione e scrivere una storia altrettanto originale che tiene incollati allo schermo. Vincente anche l’idea di farlo antologico: infatti questo Glass Onion lo si può tranquillamente guardare senza dover recuperare Knives Out, i due non hanno nessun collegamento tranne il personaggio di Blanc. E devo dire che se dovesse diventare una saga sono pronto a diventare fan numero uno (un terzo capitolo è già in lavorazione da Netflix). Scelta altrettanto interessante quella di farlo uscire unicamente su Netflix, al contrario del primo capitolo che aveva fatto successo al cinema prima della pandemia, ma ancora il gigante dello streaming non aveva comprato i diritti. Ha fatto un uscita speciale nei cinema statunitensi durante la settimana del Ringraziamento, ma penso sia un piccolo escamotage per far entrare il film in lizza per la stagione dei premi. Infatti è già nominato nella categoria Musical/Commedia per miglior film e miglior attore (Daniel Craig).

Non penso vincerà nulla, ma rimango un grandissimo fan delle investigazioni di Benoit Blanc, attendo con ansia il prossimo mistero!

Voto: 4/5

Avatar – The Way of Water

Sono passati ben 13 anni dalla prima volta che James Cameron ci ha accompagnati su Pandora, e stavolta lo fa con il film epico più lento del mondo. Torniamo da Jakesully e sua moglie Neytiri che devono affrontare una nuova terribile minaccia: i loro figli adolescenti. Tra scelte sbagliate e ripetitive, sono inseguiti dal clone del colonnello Miles Quartich, nel corpo di un Avatar. Per sfuggirgli, si nascondono nelle isole del popolo Metkayina, un tipo di Na’vi che abitano nell’acqua.

Cominciamo con le cose positive: ovviamente, gli effetti speciali sono mozzafiato. Il realismo è ad un livello altissimo, l’interazione tra i Na’vi e l’acqua ti fa dubitare di guardare un prodotto creato al computer. Anche tutti i nuovi animali acquatici sono di un realismo impressionante, quando vedi la pelle di alcuni pesci e balene puoi definire ogni dettaglio di rughe e scaglie. Si sa che l’acqua è un elemento difficilissimo da gestire, ed è incredibile come Cameron sembra sfruttare le scene al massimo per mostrare a che livello riescono a giocarci. Per esempio, in una scena due ragazzi si picchiano proprio sulle rive di una spiaggia, tra la schiuma del mare. Si spingono in acqua, si tirano pugni e calci, e l’acqua interagisce con i personaggi in modo super realistico. Anche la luce è gestita magistralmente: il modo in cui si riflette sulla pelle bagnata di ogni personaggio dona ancora più realismo in ogni scena. Visto che tre quarti del film è ambientato in queste isole acquatiche, ci si aspettava un livello molto alto per quanto riguarda gli effetti speciali, e ci sono senza dubbio arrivati.

Ma a parte la bellezza estetica, cosa rimane di questo nuovo capitolo di Avatar? Non è così facile rispondere, visto che il contenuto del film è molto più basso rispetto alla sua innovazione tecnologica. La trama si può dividere in 3 parti abbastanza ovvie: l’introduzione, la parte centrale e il finale.

Nell’introduzione conosciamo la nuova famiglia di Jake e Neytiri, e tutto quello che hanno fatto nel corso degli anni (non sappiamo esattamente quanto tempo è passato dal primo film), e veniamo a conoscenza del clone del colonnello. Succede poi un evento catastrofico (cerco di non fare spoiler) che obbliga i nostri eroi a esiliarsi. Entriamo così nella parte centrale, che è soltanto, per un sacco di tempo, senza nulla che cambia, acqua. Jake in acqua, i figli in acqua, gli animali in acqua, i nuovi Na’vi in acqua, secondo me per almeno 2 ore o poco meno. Poi ad un tratto si arriva alla battaglia finale e basta, tutti a casa.

Dopo 13 anni di attesa ci si aspetta almeno una trama che intrattenga un minimo, ma qui ci troviamo proprio di fronte ad un documentario sulla vita acquatica di Pandora. Può essere interessante per un po’, ma ragazzi sono 3 ore e 12 minuti che passano molto molto lentamente. L’intrattenimento è compreso nella prima e nell’ultima mezz’ora, il resto della sceneggiatura può essere sintetizzato così:

  • Nuovo animale acquatico da conoscere;
  • I Na’vi acquatici sfottono i figli di Jake;
  • I figli di Jake fanno cazzate, tipo menare gli acquatici;
  • Jake si arrabbia e li obbliga a scusarsi;
  • Ripetere la lista dall’inizio

Ecco tutta la trama di questo nuovo Avatar, niente di più. Il film è completamente focalizzato sui figli di Jake, la “nuova generazione” di Pandora, che probabilmente nei prossimi film della saga (vi ricordo che sono programmati ancora 3 film, per un totale di 5) prenderanno sempre più piede. Ma i figli non hanno nessuna dimensione e non danno niente se non arrabbiatura. Cosa ancora più fastidiosa è il loro modo di parlare: “grazie bro, sei forte bro, andiamo bro, aiutami bro, non toccare mia sorella bro, lasciaci in pace bro”. Non so come sia possibile ma Jakesully ha importato il peggior linguaggio slang su un pianeta alieno, e nonostante tutto lui è l’unico a non parlare così. E, come detto in precedenza, la parte centrale dura almeno 2 ore sulle 3 totali, è quindi molto lunga e molto ripetitiva, non aggiunge niente al film, se non il fascino estetico citato prima. Insomma, non sarebbe stato malaccio aggiungerci anche una trama.

In questa parte centrale scopriamo anche il messaggio che Cameron ci vuole mandare con insistenza: LA FAMIGLIA. Esatto, Avatar – The Way of Water ha la stessa profondità di un Fast & Furious qualsiasi. Purtroppo, Jake non si vede molto, i protagonisti sono a tutti gli effetti i suoi figli, ma quando c’è Jake sullo schermo potete stare sicuri che pronuncerà la parola FAMIGLIA. All’inizio può anche andare bene, ma dopo 2 ore in cui “deve difendere la famiglia, la famiglia sta unita, non deve deludere la famiglia“, basta per favore cambia argomento.

Ancora più peccato è il “cattivo” del film, che così cattivo non è. Questo clone del colonnello non ha un vero motivo per correre dietro alla famiglia Sully, tutta la sua motivazione è un vecchio video registrato dal vero colonnello in cui gli dice: “te sei un mio clone Avatar, hai la mia memoria, ma non sai come sono morto, in ogni caso vendicami”. Ed ecco che il clone parte alla vendetta. Potevano almeno sprecarsi un po’ a creare un cattivo con un po’ di senso, o almeno un po’ diverso a quello del primo, hanno letteralmente preso lo stesso personaggio senza aggiungere niente.

Non si esce veramente delusi dalla proiezione, ma di sicuro un po’ amareggiati. Dopo 13 anni le aspettative di tutti erano di sicuro molto alte, e ritrovarsi di fronte ad un documentario di un pianeta inesistente che dura 3 ore non è proprio il massimo dell’intrattenimento. Il salto di qualità l’hanno di sicuro fatto con gli effetti speciali, speriamo che con i prossimi sequel spenderanno qualche soldo in più per migliorare la sceneggiatura.

P.S. – Sigourney Weaver interpreta una delle figlie di Jake, ma perché fare una bambina con la voce di una 70enne? Era la cosa più terrificante del film, per favore trovatele una doppiatrice.

Pinocchio

Quante volte abbiamo visto Pinocchio nella nostra vita? Probabilmente un numero incalcolabile, ma è già strano che quest’anno ne siano uscite ben due nuove versioni. La prima versione su Disney+, con Robert Zemeckis in regia e Tom Hanks nei panni di Geppetto, non è altri che il live action del Pinocchio originale, quello del 1940, uguale in tutto e per tutto. La seconda versione, stavolta su Netflix, è di Guillermo del Toro, e già quando si vociferava di questo progetto tutti erano già entusiasti. Pinocchio e del Toro sono forse le due entità più opposte che si possano immaginare, una coppia che non ha nulla in comune, eppure, è nato un capolavoro.

In questo film stop motion, del Toro ci regala molto di più della storia che noi già conosciamo: inizia con Carlo, il figlio deceduto di Geppetto. Scopriamo che la nascita di Pinocchio è frutto della depressione di un padre che non riesce ad accettare la morte del figlio, e vuole disperatamente un sostituto. Vediamo nello stesso Pinocchio la delusione di non poter essere all’altezza del figlio “originale”, e venire denigrato dal padre. E sarà questa voglia di riscattarsi che lo porta in un avventura (non so se si può veramente chiamare così) in quello che originariamente era il paese dei balocchi, ma qui non è altro che il mondo vero, fuori dalla sicurezza della propria casa.

Del Toro ci regala un film maturo, della trama originale riconosciamo lo scheletro e qualche dettaglio, ma tutto il resto è cambiato, va più a fondo e in continuità. L’ambientazione è più chiara, siamo sempre in Italia, ma ci troviamo nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Non è di sicuro facile aggiungere credibilità nella storia di un burattino vivente, ma del Toro ce l’ha fatta.

Tra le differenze più eclatanti troviamo il Conte Volpe e Spazzatura, la sua scimmia schiava. I due dovrebbero sostituire non solo il Gatto e la Volpe, ma anche il Mangiafuoco. Infatti il Conte Volpe riuscirà a raggirare Pinocchio per partecipare al suo spettacolo di burattini e a rubargli tutti i soldi facendogli credere di inviarli a Geppetto. Mischiando e unendo i personaggi originali in uno tutto nuovo non solo dona un cattivo più profondo e credibile, ma anche un nuovo improbabile alleato di Pinocchio: la scimmia Spazzatura.

Conosciamo bene del Toro e sappiamo quanto ama il soprannaturale, e ovviamente ne ha aggiunto un po’ anche qui. Scopriamo infatti che la nuova versione del burattino è immortale. Ma dal momento in cui incontra la Morte, questo dono non gli viene presentato come tale, ma piuttosto come una maledizione. Più muore, più tempo dovrà aspettare per tornarne in vita. Più tempo aspetta, più i suoi cari rischiano la morte. Avete capito che la morte è un discorso centrale, visto che lo scopo ultimo del film è l’accettazione dalla parte di Geppetto della morte del figlio Carlo, accogliendo Pinocchio nella sua famiglia.

Se pensavate di guardare un film tranquillo e leggero come l’originale, beh, vi siete sbagliati di grosso! Questo Pinocchio ha molto di più del classico Disney a cui siamo abituati, tanto di cappello a del Toro per essere riuscito in questa impresa che sembrava impossibile.

Pinocchio lo potete trovare dall’8 dicembre su Netflix.

Voto: 4/5

The Menu

Dopo Parasite e Squid Game e Triangle of Sadness abbiamo un nuovo partecipante nella gara dei film contro la differenza tra classi sociali. Non vorrei dire che The Menu è forse il più piatto in questa breve lista ma… è proprio così.

Un gruppo di 11 ricchi stravaganti (più la nostra eroina, per un totale di 12) si ritrovano nel rinomatissimo ristorante dello chef stellato Julian Slowik (un sempre grande Ralph Fiennes). Tra i vari personaggi troviamo la coppia di abitudinari, la critica culinaria, l’attore dimenticato da tutti dopo un film di successo, i giovani ricchi figli di papà e un appassionatissimo fan della cucina, accompagnato da Margot (Anya Taylor-Joy). Lo chef presenta una portata dopo l’altra, raccontandone la storia ed il significato ma, a mano a mano che i piatti vengono serviti, i clienti si rendono conto che chef Slowik ha molto altro da dire, facendo diventare la serata una lotta per la sopravvivenza.

Il concetto è molto semplice, ma anche altrettanto originale: ogni portata rappresenta l’egoismo e l’egocentrismo dei commensali, inizialmente in modo abbastanza generale, poi concentrato sui singoli personaggi, per finire con un discorso prettamente legato alla cucina, ma che ovviamente funziona anche per la “vita di tutti i giorni”. In tutto questo c’è un problema: Margot. Lei è l’unica che non ha niente a che fare nella lista degli invitati, essendo invitata all’ultimo e… spoiler – una prostituta. Lo chef chiaramente lo sa, perché gli invitati sono stati scelti con molta cautela e precisione, una piccola differenza può distruggere tutto il suo piano, ed è quello che potrebbe accadere con Margot.

Lo chef, così come nella vita vera, dice a Margot di scegliere da che parte stare: nella ciurma di Slowik o con gli insopportabili clienti? Perché lui sa che in realtà lei non centra niente con quel tipo di clienti, sa che lei non fa parte dell’alta società, bensì è giù in basso, insieme a camerieri, cuochi e chef.

Quello che spinge il rinomato chef ad organizzare questa serata è il cuore del film: per anni la sua carriera si basava sul rendere felici le persone, sulla semplicità di un pasto fatto bene e con cura. Andando avanti il tutto si è trasformato e lui non si riconosce più in quello che sta facendo, una cucina di qualità estrema, ottenibile solo dai ricchissimi dopo mesi di attesa. Persone che non apprezzano ciò che mangiano, lo fanno solo perché possono e perché migliora l’immagine andare in un ristorante di quello specifico chef. Slowik ha deciso allora di smettere, di raccogliere un esempio di ogni tipo di persona che più non rispetta la sua cucina e, finalmente, farli pagare.

Ho già detto troppo e non voglio fare spoiler inutili. Finisco quindi col dire che come film era inaspettatamente interessante, con una bella tensione e un messaggio molto forte. Quello che Slowik vuole mandare è un messaggio che tocca tutti: adesso si fanno le cose senza nemmeno pensare perché si fanno, lo solo scopo è guadagnare soldi o immagine. Tutto questo viene mandato attraverso delle portate abbastanza geniali (il pane insistente è il migliore), per poi finire un po’ nell’esagerazione (non so perché, ma i marshmallow mi hanno ricordato l’orso di Midsommar).

Rispetto al messaggio che è complesso e intricato, il film è invece leggero e diretto, il che lo rende godibile per tutti, recuperatelo al cinema se ci riuscite!

Voto: 3.5/5

Marcel the shell with the shoes on

Cosa serve per fare un bel film? Un cast formidabile? Un regista pluripremiato? Degli effetti speciali iper-realistici? Un budget esorbitante? O semplicemente una piccola conchiglia con le scarpe?

Basta una piccola, piccolissima idea per creare una storia che ti entra direttamente nel cuore. Il regista Dean Fleischer-Camp, co-protagonista del film, ci presenta il piccolo Marcel, una conchiglia con un occhio e un paio di scarpe. Dopo averlo incontrato per caso nella casa che ha affittato, Dean decide di fare un documentario con Marcel come protagonista. Il piccolo ci racconta la sua visione del mondo: abita da quando è nato in quella stessa casa con tutta la sua famiglia di conchiglie. Gran parte è però scomparsa, e lui è rimasto solo con sua nonna Connie. Dopo aver pubblicato un cortometraggio documentario con protagonista Marcel su YouTube, Dean decide di sfruttare la fama per aiutarlo a trovare il resto della sua famiglia.

I film come Marcel the shell with the shoes on sono rari, piccoli film particolari che, con la loro semplicità, ti fanno apprezzare la vita e il cinema. Vedere la vita attraverso la semplicità e l’ingenuità di Marcel scalda il cuore, tutto è nuovo e da scoprire. Lui non è solo una conchiglia, è un bambino che deve riuscire a sopravvivere facendo tutte le faccende casalinghe che prima erano destinati agli altri membri della famiglia, oltre che prendersi cura di sua nonna. Dean lo segue tutti i giorni per tutto il giorno all’interno della casa, Dean scopre la sua routine e Marcel scopre tutte le novità che lui ha portato.

Quello che più ti tocca è la semplicità di tutto, proprio per questo i film così sono sempre più rari. Il regista, anche mettendosi in campo, crea veramente un piccolo capolavoro. Le emozioni che il piccolo Marcel scaturisce nello spettatore non sono descrivibili in una recensione, vanno veramente vissute per comprenderle appieno. Se volete recuperarlo, non è così facile da trovare, ma vi lasciamo qui sotto il link per il cortometraggio da cui è nato il film. State tranquilli, appena sarà disponibile su un sito streaming vi avviseremo.

È stato giustamente nominato ai Golden Globes come miglior film d’animazione, noi ovviamente gli facciamo il tifo sperando vada anche agli Oscar!

Voto: 4.5/5

Triangle of Sadness

Sappiamo che il Festival di Zurigo è solito rubare film da molti altri festival per poi prendersi il merito, e anche in questa 18esima edizione non è da meno. Tra la lista di film già passati altrove troviamo il vincitore della Palm d’Or al Festival di Cannes di quest’anno. Il regista Robert Östlund già si conosce, dopo aver vinto Un certain regard (sempre a Cannes) con Turist, e la sua prima Palm d’Or con The Square, la sua ultima fatica gli regala la seconda palma d’oro per miglior film. E siamo veramente di fronte a uno dei migliori film dell’anno, senza ombra di dubbio.

Il film è diviso in 3 capitoli. Nel primo conosciamo quelli che crediamo saranno i protagonisti: la modella affermata e influencer Yaya e il modello nascente Carl, una coppia molto particolare. Due giovani ricchi che vogliono mettere in discussione tutto sul modo di vivere moderno, mettendosi allo “stesso livello”. Il secondo capitolo ci porta in viaggio, saliamo su una crociera di lusso insieme a Carl e Yaya e qui conosciamo tantissimi altri personaggi. La coppia di russi capitalisti che hanno fatto soldi vendendo concime, la coppia di ricchi inglesi che hanno fatto soldi vendendo armi, un ricco svedese che ha fatto soldi creando un app e qualche membro dell’equipaggio, tra cui la responsabile della crew e il capitano comunista perennemente ubriaco. Sembra l’inizio di una barzelletta, e infatti è proprio così: è solo l’inizio! Andrò più a fondo in seguito per dire cosa succede su questa crociera, intanto passiamo al terzo episodio: l’isola. La barca viene attaccata dai pirati ed esplode, e soltanto in pochi riescono a salvarsi, trovando rifugio su un’isola. Qui tutto cambia, si trova un nuovo ordine e si cerca un modo di sopravvivere, ma non è facile quando si è abituati ai camerieri che ti portano tutto…

PIENO di contenuto, è da anni che non vedo un film come questo, carico e voglioso di mandare un messaggio urlandolo così forte. Ed è ancora più affascinante pensare che ha vinto il festival di Cannes, visto che il pubblico di quel festival è esattamente quello che viene criticato in Triangle of Sadness. Infatti questa nuova opera di Ostlund è una satira contro la classe più alta della società, partendo dai figli della nuova generazione: gli influencer. Inizialmente vediamo tutto attraverso Carl e Yaya, lui in particolare è un personaggio geniale. Dipinto come l’uomo perfetto, sin dalla prima scena vediamo tutti i problemi mentali che si fa: è insicuro su tutto, con un ragionamento che non ha alcun senso vuole assicurare uguaglianza nella sua relazione con Yaya, e non appena lei mette in discussione la sua mascolinità, lui esplode con delle uscite ridicole. Carl è proprio la definizione del nuovo tipo di uomo moderno che si sta creando, non vuole mettersi tra i piedi dell’emancipazione femminile ma allo stesso tempo si sente minacciato da tutto quello che gli va contro.

Il capitolo dello yatch è una vera e propria montagna russa, impossibile da richiudere tutto in una piccola recensione. Mi concentro in particolare su una scena: la moglie ricchissima del russo ricchissimo ovviamente si sente in dovere di far capire alla crew che lei non è come gli altri super ricchi, lei è migliore e con i piedi per terra. La tipica falsa affermazione di ogni persona benestante che finge di interessarsi a quelli ai piedi della piramide, quando in realtà aspirano solo a dei meri complimenti, visto che l’equipaggio è sempre obbligato a dire si ad ogni loro richiesta. Infatti, lei dice all’equipaggio che devono rilassarsi, e fare un tuffo in mare. Così fanno tutti, compresi i cuochi che lasciano il pesce all’aperto in cucina… il che creerà delle spiacevoli conseguenze, che vi faccio scoprire guardando il film.

L’isola è tutta una storia in sé. L’ordine della gerarchia viene rapidamente sconvolto, senza che lo spettatore se ne rende veramente conto visto che ride ogni minuto che passa. Abigail, una delle donne delle pulizia che erano sullo yatch, diventa la capa indiscussa dell’isola, essendo la sola ad essere capace di cacciare e cucinare. Tutti gli altri ricconi, beh, devono stare alle sue regole.

È incredibile come questo film ti sbatte in faccia discorsi molto seri e tabù con estrema semplicità ed ironia, senza nemmeno che lo spettatore se ne accorga perché sta ridendo troppo. Insomma, stavo ridendo come un matto quando l’ho visto, per poi fermarmi e pensare: “aspetta, l’ha veramente fatto?!”. Ostlund si rivela, ancora una volta, un genio, e ci regala uno dei film più belli del 2022.

Elvis

Baz Luhrmann torna al cinema dopo 9 anni (Il Grande Gatsby era tanto tempo fa) con il film più pubblicizzato di quest’anno: la nuova biografia di Elvis Presley. Austin Butler nei panni di Elvis affiancato da Tom Hanks come il manager Colonnello Tom Parker, “The Snowman”. La storia è proprio lui a raccontarla, sul suo letto di morte, partendo da quando ha conosciuto Elvis e da come l’ha fatto diventare, beh, Elvis. Tutto questo in 2 ore e 40 minuti che non passano con facilità.

Lo stile di Luhrmann è inconfondibile: pieno di luci, sfarzi e movimenti di macchina velocissimi, soprattutto nelle transizioni, che da un lato danno originalità ad un film che di originale non ha nulla, dall’altro confonde molto il racconto. Sono proprio queste transizioni che, molto spesso, tagliano le scene senza dare nemmeno il tempo di presentare una situazione, perché già si passa alla prossima. In particolare all’inizio del film, succede un susseguirsi di eventi, uno dietro l’altro, a cui non si riesce a dare la minima attenzione: tutto troppo veloce e tagliato da queste transizioni esagerate. Andava tutto talmente in fretta che mi sembrava fosse già passato metà film, ma no, erano passati solo 30 minuti.

Il film va avanti in questo modo per un bel pezzo, a mano a mano che continua queste transizioni diminuiscono, ma le scene tagliate non permettono di aver nessun contatto con i personaggi. È tutto veloce, è tutto asettico, è tutto assente. L’interpretazione di Austin Butler, per quanto buona fosse, viene lasciata lì così, senza nessuna scena in cui brillare perché di scene intere ce ne sono poche. Questo rende Elvis una sorta di pupazzo per tutto il film. Lo vediamo nei suoi diversi stili ma senza una personalità diversa. Prima Elvis giovane, poi “il nuovo Elvis”, poi è attore, fa un revival e muore. Voilà la storia di Elvis, quello che cambia è l’abbigliamento.

Preferisco non parlare di Tom Hanks perché non voglio insultare quell’uomo. A parte che il trucco lo rendeva più Jabba The Hutt che essere umano, Hanks non si è proprio impegnato a dare questa interpretazione.

Un’altra cosa che mi ha molto infastidito è il ridoppiaggio di tantissime battute nel film. Un sacco di volte vediamo un attore di spalle che si vede chiaramente che non sta parlando, ma sentiamo la sua voce. Alcune volte, ancora peggio, un personaggio sullo sfondo sfocato che fissa la camera che non sta chiaramente parlando, ma si sente la sua voce! Non si sono nemmeno impegnati a nasconderlo.

Nonostante il film parlasse di Elvis, la colonna sonora viene dritta dritta dalla playlist Top 50 Global 2022 di Spotify, una cosa imbarazzante come non siano stati capaci a scegliere delle canzoni adatte al periodo storico in cui è ambientato il film. Quindi noi vediamo una scena dove Elvis parla con B. B. King e in sottofondo sentiamo Doja Cat. Mentre nei titoli di coda ci accompagna Eminem. Non c’è più religione.

Inutile dire che queste 2 ore e 40 sono molto pesanti, anche perché, siccome il film va avanti per inerzia anche dopo 10 minuti, non ti dà mai la sensazione di “ah ecco adesso siamo quasi alla fine”, perché tutto il film sembra la parte centrale. La struttura della storia è abbastanza fottuta e ci ritroviamo con 10 minuti di introduzione con Tom Hanks impazzito, 2 ore e 20 di svolgimento, e 10 minuti di conclusione (stavolta con Tom Hanks morto).

Sono fermo sul parere che i film biografici di artisti musicali siano il genere più piatto e deludente che sta prendendo sempre più piede nel cinema, facendo incetta di soldi e di premi anno dopo anno. È la ricetta perfetta per accaparrarsi i fan dell’artista e fare incassi facili, lasciando da parte qualsiasi parvenza di originalità e, in questo caso, di narrativa. Vi saluto, sperando di non dover recensire la storia di qualche altro cantante.

Top Gun: Maverick

Sinceramente: ho zero interesse per questo tipo di film. Qualche anno fa ho visto Top Gun e già quello non mi aveva entusiasmato particolarmente (non ha una trama o sbaglio?). Nonostante tutto, sono andato, anche se con un po’ di riluttanza, a vedere questo sequel.

È da quando è uscito che ha delle ottime recensioni, viene chiamato il miglior sequel della storia eccetera eccetera. Non si può negare che Maverick riprende in pieno lo stile dell’originale. Mi ricordo pochissimo del primo film, ma tutte le scene con citazioni dirette si riconoscono dal primo secondo. E a parte questo non saprei cos’altro dire.

Esattamente come il primo, la trama è un po’ traballante: Maverick è il solito combinaguai che fa quello che vuole, i suoi superiori lo sanno ma nonostante cio è troppo bravo per essere licenziato, e va a così a ripetizione per 2 ore. Stavolta ha il difficile compito di dover insegnare ai nuovi cadetti della Top Gun come compiere una missione impossibile (riferimenti ad altri film puramente casuali). Lasciamo da parte la prevedibilità del film (è ovvio che sarà lui a capo della missione anche se all’inizio gli viene negato), la prima ora e mezza ha messo alla prova la mia concentrazione. Lui insegna ai cadetti, loro fanno cose spericolate, il suo capo si incazza, e il cerchio ricomincia.

Ovviamente il fulcro del film sono proprio le lezioni. Dal momento che un personaggio sale su un F-14 (ho visto Top Gun e sono un esperto di aerei da guerra!) il film cambia completamente. Esattamente come il primo, le scene negli aerei sono impressionanti, anche perché ti spiegano per filo e per segno quello che loro devono riuscire a fare, e ti rendi conto di quanto sia veramente una missione impossibile (riferimento ancora casuale). Per essere molto pignoli si potrebbe dire che si, sono delle scene veramente fighe, ma a cui si può dare lo stesso livello di qualità di quelle del primo, un film del 1986. Non ho la più pallida idea di come sia stato girato il primo film, ma le scene in volo lasciano veramente a bocca aperta. Lo stesso vale per questo film, dove sappiamo che sono aerei veri. Quindi, molto figo, ma in regola a quello che ci si aspetta.

Ultimo paragrafo per parlarvi di Maverick in persona. Tutti i personaggi del film gli dicono che ad un certo punto sto povero cristo dovrà farsene una ragione e andare in pensione, ma lui proprio non ne vuole sapere. Non capisco dove vogliono andare con questo personaggio: lui continua imperterrito a fare quello che vuole e, nonostante le conseguenze, riesce sempre ad uscirne. Anche all’ultimo, quando sembra finalmente di aver accettato la pensione, anche dopo consiglio di Iceman, ritorna e diventa capo della missione impossibile. Basta, sei vecchio, smettila, eddai. Speravo pure in una conclusione un po’ poi corretta per il personaggio. In un momento abbastanza tragico in cui si sacrifica per un personaggio, per nessun motivo è ancora vivo, anche dopo farsi sparare da un elicottero da guerra. Ecco, quando il film ha cominciato ad essere un po’ meno realistico del solito, mi è dispiaciuto. Sarebbe stato bello vedere che, nonostante tutti provassero a fargli cambiare idea, lui muore facendo quello che più ama. Ma no, sopravvive e continua a cazzeggiare.

Tenete conto che questo genere di film in generale non mi piace, quindi mi è molto difficile trovare delle cose positive da scrivere. Se non siete d’accordo, commentate che leggiamo tutto.

Everything Everywhere All at Once

Il film più discusso dell’anno finalmente arriva sull’Hateful Blog. E c’è veramente tanto di cui parlare. È dal 2016, con Swiss Army Man, che i Daniels non tornavano sul grande schermo, e questa attesa è valsa ogni minuto. La protagonista è Evelyn, una donna cinese che si è trasferita da anni in America con suo marito Waymond e sua figlia Joy. Hanno una lavanderia a gettoni che, tra il caos generale, Evelyn fa il possibile per tirare avanti. È il momento di fare le tasse ma, una volta arrivati dalla responsabile (una grandissima Jaime Lee Curtis), succede qualcosa: Waymond cambia completamente, come posseduto, e dice a Evelyn che lei è l’unica che può salvare tutti gli universi dal cattivissimo Jobu Tupaki, un personaggio con il potere di vivere tutti gli universi contemporaneamente e di controllarli.

Non so nemmeno da dove iniziare per raccontare questo film. Cercherò di dire il meno possibile perché vi consiglio vivamente di correre a vederlo! È da anni che non si vedono film che rinnovano qualcosa, e appena ti ritrovi un film come questo rimani a bocca aperta. Ci sono tantissime idee che, a mano a mano che vai avanti, vengono raccontate e usate, una dopo l’altra, aumentando la difficoltà e la profondità di quello che già sta succedendo. A volte mi domando come alcune persone riescano ad arrivare a certe idee. Beh, in questo film ne è pieno. E personalmente adoro quando un film è guidato da una piccola idea che viene sfruttata al 100%.

Provo ad andare per ordine. Alla base del film ci sono più o meno 3 cose: il rapporto difficile di una madre con la figlia, le scelte che si fanno nella vita e il nichilismo.

Evelyn e Joy non vanno d’accordo. La madre fa il possibile per mandare avanti la baracca, mentre Joy fa il possibile per vivere una vita normale con la sua ragazza. La madre nasconde persino la sua omosessualità al nonno. Le due, semplicemente, non si capiscono, sono troppo distanti e non riescono in nessun modo ad avvicinarsi.

Evelyn scopre l’esistenza di milioni di universi differenti, in cui anche una minuscola scelta cambia il percorso di una vita intera. Tutto viene messo in discussione. Il passato, il futuro, le scelte fatte, le conseguenze avute, il senso di continuare a vivere in un posto in cui non si è veramente felici.

Il Jobu Tupaki è un essere onnipresente, vive contemporaneamente in tutti gli universi ed è capace di cambiare gli oggetti a suo piacimento da un universo all’altro. Nella sua vita con tutto, cerca un senso. Decide di prendere tutto e metterlo in un unico posto. Crea così il Bagel, una sorta di ciambella, che contiene tutto. Diventa però un buco nero che piano piano risucchia ogni cosa.

Questo è il contesto generale in cui si muove la storia: Evelyn viaggia mentalmente da un universo all’altro, prendendo nuove conoscenze e vivendo nuove vite, così da diventare abbastanza forte per sconfiggere il Jobu Tupaki. Si troverà di fronte a mille vite, completamente diverse da quella che sta vivendo, solo per qualche piccolo dettaglio diverso. Perché continuare? Perché non restare in un universo in cui sono ricco e faccio una bella vita?

In un certo senso, il film esplora in una maniera molto complessa il senso della vita. Il modo in cui accettiamo determinate cose solo perché viviamo e dobbiamo continuare a vivere, senza che nessuno ci obblighi. (Da qui un po’ di spoiler). Il Jobu Tupaki, da essere onnipresente, non riesce più a vivere in questo modo. Non vede più un senso perché ha letteralmente visto tutto, e ha pure creato tutto grazie al Bagel. Ma com’è possibile che una ciambella, che ha per definizione un buco al suo interno, contenere tutto se il centro è vuoto? Eppure è proprio lei che contiene letteralmente tutto. Ed è proprio questo essere a rappresentare il nichilismo: aver vissuto ed aver visto così tanto da non voler più vivere, avendo perso il senso maggiore della vita.

Evelyn è l’esatto opposto, ed è grazie al marito Waymond che lo capisce. Il marito è un personaggio molto importante, sempre gentile e comprensivo nei confronti della moglie, nonostante lui abbia chiesto il divorzio. È la sua voglia di vivere che dà forza a Evelyn e cambia il modo di lottare il Jobu Tupaki. È molto difficile da spiegare il concetto di questo film, andrebbe visto e goduto sotto ogni dettaglio.

Ma non c’è solo drammaticità, è anche una bella commedia, se mai lo vedrete preparatevi a conoscere Racacoonie, personaggio di cui spero faranno un film.

Questa recensione può essere un po’ incasinata e da tutte le parti, me ne rendo conto, ma sto ancora lentamente elaborando tutto quello che questo film vuole dirci. Se non vi piace, spero troviate qualche universo in cui ho scritto una recensione migliore.

Volete godervi questo film al cinema? Siete fortunati! Sarà presentato al festival di Neuchâtel! Vi lascio il link qui.

Occhiali Neri

Non è facile fare un film di Dario Argento, persino Dario Argento stesso non ne è più capace. Non ho iniziato il film con tante aspettative (anche vedendo il cast), ma ammetto che avevo un piccolo barlume di speranza verso quest’ultimo lavoro del grande Dario. La protagonista è Diana (Ilenia Pastorelli), una ragazza che lavora come prostituta. Si scopre all’inizio del film che a quanto pare c’è un serial killer che ammazza soltanto le prostitute. Una sera, Diana torna a casa in macchina e viene inseguita da un furgone che, tamponandola, le fa fare un incidente. Nell’incidente, va contro un altra macchina e uccide i genitori del piccolo Chin e lei risveglia cieca. Diana deve abituarsi questa nuova vita mentre il serial killer continua a cercarla.

Lo so, la trama sembra molto figa. Io l’ho visto senza sapere niente, e nel momento in cui lei diventa cieca le mie speranze sono salite alle stelle visto che era super inaspettato. Peccato che, dopo quell’evento, non succede più nulla. C’è un momento interessante in cui Diana deve effettivamente “imparare” a vivere da donna cieca, in particolare grazie all’aiuto di Rita (Asia Argento), una persona specializzata nell’aiutare i non vedenti, ma che dura veramente poco e sembra che lei in pochissimo tempo si abitua a questo stravolgimento radicale della sua vita.

Inoltre, come detto, è un film di Dario Argento, e, anche se non sai nulla del film, ti aspetto qualche caratteristica tipica del regista. Nei primi 10 minuti di film ero concentratissimo, convinto che Argento nascondeva da qualche parte l’identità del serial killer durante la scena del primo omicidio. Ma no, niente da fare. Le scene si susseguono, una dopo l’latra, per inerzia, senza nessun interesse a voler approfondire ciò che stiamo vedendo. La fotografia è in realtà molto bella, ci sono scene veramente interessanti, ma che sfocano di fronte al poco interesse che ti dà la storia.

In particolare, il personaggio del serial killer è pessimo. È vero che non bisogna per forza avere un movente o conoscere per forza l’assassino per renderlo interessante, ma in questo film non sappiamo niente di lui, è letteralmente una persona a caso. Si vede 2 volte (spoiler): una volta come cliente di Diana e una volta in cui si scopre che è il serial killer. Non sappiamo perché lo fa, o perché è particolarmente fissato con Diana, lui la cattura e basta, toh. Se ripenso agli altri classici di Argento c’è sempre un intrigo, un nodo da sciogliere, quel qualcosa che rende la storia più complessa di un semplice maniaco che gira per la città ad ammazzare la prima prostituta che passa. Per non parlare del modo in cui viene ucciso. Lui cattura Diana, ed assieme a lei anche il suo cane da guida! Che ovviamente è un cane addestrato per difenderla. Alla prima opportunità Diana gli dà l’ordine e il cane ammazza l’assassino, e tutti felici e contenti.

Non voglio divulgarmi troppo, anche perché più scrivo più faccio spoiler, ma non penso che qualcuno vedrà in ogni caso questo film. Un altro personaggio pessimo è Chin, il bambino orfano dopo l’incidente di Diana. Praticamente gira come un burattino da un posto all’altro senza nessun motivo, e non è soltanto colpa del piccolo attore, ma proprio del senso del personaggio. Inizialmente è arrabbiato con Diana per avergli ucciso i genitori, ma letteralmente 2 minuti dopo la perdona e va a vivere da lei. Sembra che nessuno avesse in chiaro quali personaggi usare per mandare avanti la storia.

Non vi racconto il finale perché è una vera chicca, chi avrà il coraggio di guardare questo film se lo godrà.

Una cosa molto positiva posso dirla, che è l’unica che ha tenuta alta la mia attenzione: la colonna sonora. Ho poi scoperto che a quanto pare giravano rumors dove dicevano che la colonna sonora di questo film avrebbero dovuto farla… i Daft Punk. Sono rimasto scioccato, per fortuna che si sono sciolti prima e si sono risparmiati sta figura. In ogni caso, quella fatta da Arnaud Rebotini è tanta roba, ve la lascio qui sotto come sempre:

The Unbearable Weight of Massive Talent

Non è facile essere Nicolas Cage. E a dircelo, è proprio lui stesso. Nicolas Cage interpreta una versione parodica di sé stesso, dove nemmeno lo spettatore riuscirà a capire quale caratteristica è tratta dal vero lui, e quale è solamente parte del film.

Non avendo visto nessun trailer e non avendo letto nulla su questo film, mi aspettavo una cosa completamente diversa da quello che ho visto. Inizialmente seguiamo Nick Cage che non riesce a equilibrare vita famigliare e vita lavorativa: perde un offerta del ruolo della vita, è pieno di debiti, e il continuo focalizzarsi sulla sua carriera distrugge completamente la relazione con sua figlia Addy. Disperato, accetta di partecipare alla festa di compleanno di un eccentrico milionario spagnolo, Javi, ovviamente sotto compenso. Nick viene però contattato dalla CIA, dicendo che Javi è in realtà a capo di un cartello ed il responsabile del rapimento della figlia del presidente spagnolo.

Ecco, diciamo che mi sarei aspettato unicamente la prima parte della trama, tutto il resto mi ha lasciato veramente molto confuso.

Ed è proprio quella prima parte che ha gli spunti più interessanti di tutto il film: noi vediamo veramente un esagerazione di quello che crediamo sia Nicolas Cage nel suo privato, fissato con il cinema e con la sua carriera, fino ad obbligare la figlia a vedere i suoi film preferiti senza rendersi conto che a lei non interessano. Questo Cage è anche tormentato da una visione di sé stesso, vestito alla Wild at Heart e ringiovanito, che gli ricorda costantemente chi è lui in realtà: un mito e una leggenda del cinema, non deve scendere a compromessi con nessuno perché lui è Nick fucking Cage.

Questa prima parte era in assoluto la più interessante. Non solo vediamo com’è difficile gestire l’equilibrio fama/famiglia che è molto spesso ignorato quando si pensa alle celebrità, ma è pure spiegato attraverso uno degli attori più amati e celebri del cinema moderno, di cui conosciamo moltissimi film, e di conseguenza moltissimi riferimenti che troviamo in questo film. La cosa diventa ancora più chiara quando appare per la prima volta la visione di Nick Cage da giovane, che sgrida il nostro Nicolas dicendo che lui è una leggenda e non deve stare alle regole degli altri ma alzarsi al di sopra di tutti e farle lui stesso. Ovviamente è una caricatura di sé stesso, ma tutto quello che noi conosciamo di Nicolas Cage (l’esagerazione, le urla, l’azione, ecc…) è riportato in questo Nick Cage come se fosse normale. La cosa divertente è che non lo metti neanche in dubbio: Nicolas Cage potrebbe benissimo essere così anche nella realtà.

Poi va alla festa di questo spagnolo, e vabbè lì la trama deraglia un po’. Diventa amico di Javi e viene poi contattato dalla CIA per aiutarli a trovare la ragazza rapita. In pratica da qui in avanti il film diventa Johnny English: Nicolas Cage si ritrova a dover fare cose da spia essendo completamente ignorante in campo. Tutto questo stratagemma viene usato come scusante per far pace con Addy, ma se all’inizio del film si aveva un minimo appiglio al realismo, viene completamente perso nella sua seconda parte. Si trasforma in un film di azione/spionaggio poco interessante, dove l’unica carta divertente rimane il fatto che è Nicolas Cage in persona ad esserne protagonista. Un gran peccato rispetto a come il film era iniziato.

Ma come viene giustificato questo cambiamento? Beh, durante la loro amicizia, Cage e Javi scrivono un film, che dovrebbe far uscire l’attore dalla sua pensione attoriale. E indovinate un po’? Ovviamente scrivono proprio questo film. Partito come un film riflessivo sulla crescita di un attore e l’amicizia con uno sceneggiatore eccentrico (Cage e Javi), per cercare di smascherare Javi, Cage lo convince ad aggiungerci una scena di rapimento. Javi, all’inizio molto contro a quest’idea, la accetta perché capisce che non c’è mercato per i film senza azione. Per un film che vada bene bisogna prendere un po’ tutti i tipi di spettatori: all’inizio hai quelli impegnati, nella seconda parte hai i fan dell’azione, ed ecco un pacchetto perfetto.

È abbastanza divertente come scenetta vedere come il film viene creato mano a mano, ma rimane comunque un po’ patetico pensare che devono giustificare metà film che di per sé non ha nulla a che fare con il resto della trama. Peccato.

Nicolas Cage e Pedro Pascal sono una coppia formidabile. Nonostante tutto, insieme fanno morire dal ridere, soprattutto in una scena in cui i due si fanno di LSD. Ma la parte migliore del film è e sarà per sempre quella dove Cage, travestito da mafioso italiano, urla CAZZO più volte pur di essere creduto come tale.