Reality

105 minuti di interrogatorio, lineari, non romanzati, non arricchiti di particolari, solo la messa in scena nuda e cruda della registrazione audio effettuata dall’FBI il 3 giugno 2017 in una piccola casa della Georgia.

Reality torna a casa in auto, parcheggia e non ha il tempo di uscire dall’abitacolo che due uomini bussano al suo finestrino e le si presentano come due ufficiali del Federal Bureau con un mandato di perquisizione per casa sua.

Tutti rimangono molto tranquilli e la registrazione audio procede, con la trascrizione addirittura del cane quando abbaia, dei colpi di tosse, delle risatine tra i due colleghi che conducono l’interrogatorio e così via.

Reality è accusata di “rimozione di materiale classificato da una struttura governativa e invio a un organo di stampa”, è riuscita a trafugare dei documenti top secret riguardo lo spionaggio da parte dei russi verso gli Stati Uniti durante le elezioni di Trump nel 2016.
L’FBI riesce a rintracciarla e la arresta alla fine dell’interrogatorio effettuato nella sua casa in Georgia.

Potremmo guadare questo film in due modi, sotto due chiavi di lettura differenti:

Da una parte, si potrebbe criticare dicendo che è come una puntata di un qualsiasi programma di RealTime, dove si ricrea tutta una scena, semplicemente che con un budget maggiore.

Dall’altra parte, quando un film è biografico e non si attiene alla realtà al 100%, ci si lamenta perché non è fedele ai fatti realmente accaduti… quindi o in un modo o nell’altro fondamentalmente non ci va bene nulla… e quindi trovo che questo film, anche se “solamente” una messa in scena, è davvero fatto bene e racconta la storia complessa del mondo dei Wistleblower di tutto il mondo.

L’interpretazione di Sydney Sweeney (nel ruolo di Reality Winner) è davvero notevole, lei che fino a questo film aveva lavorato per la maggior parte per prodotti televisivi (Euphoria, The Handmaid’s Tale, …), in questo film struttrato quasi unicamente da monologhi ai quali bisogna attenersi parola per parola senza poter improvvisare nulla, se la cava davvero bene.

Nel 2019 la regista Tina Satter, mette in scena “Is this a room”, uno spettacolo teatrale della trascrizione dell’interrogatorio, 4 anno più tardi arriva alla Berlinale nella sezione “Panorama”.

Quindi per concludere, “Reality” è un film lineare, teatrale e senza la pretesa di giudicare.
Il film ci presenta senza giudizio una storia che saremo noi a giudicare, saremo noi a capire e a prendere le parti.  

Il potere delle decisioni politiche, la quantità di informazioni top secret che non potremo mai sapere e le tecniche di dissuasione che l’FBI utilizza durante i suoi interrogatori, tanti elementi che ci vengono presentati semplicemnte rimettendo in scena una registrazione audio vera di un’ora e mezza.

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She Came to Me

Non conoscevo Rebecca Miller e non ho scelto di guardare il film perché estremamente interessato alla trama, ho riservato il mio posto in sala perché sto pochi giorni a Berlino e quindi voglio guardare tutto quello che posso, ma uscito dalla proiezione posso dire che sono contento di aver preso il biglietto, perché “She Came to Me” mi è piaciuto!

Siamo a New York e il compositore di opere liriche Steven (Peter Dinklage) ha un “blocco dello scrittore”. Durante una sua passeggiata in giro per Brooklyn incontra per caso una donna che lavora come capitano su una vecchia nave, e dopo una notte di passione ritrova l’ispirazione per la sua prossima opera lirica.

Intanto il figlio di sua moglie (Anne Hathaway) inizia a frequentare una ragazza di 16 anni. Le famiglie nel corso del film si intrecciano e sarà difficile per ogni personaggio riuscire a liberarsi dall’ingroviglio che si è creato.

Il film racconta una storia semi-realistica, non ci racconta il caos di New York, ma quanto posano essere caotiche delle famiglie insospettabili dell’alta borghesia americana.

Trovo super interessante la rappresentazione, se vogliamo stravolta, degli adulti e dei ragazzi.
Steven, l’adulto, si fa guidare dal suo cane per trovare la musa che “guarirà” la sua creatività compositiva. Sua moglie, psicologa, avrà un momento di fobia sui kreplach (una spece di raviolo della cucina tradizionale ebraica).

Sono i ragazzi invece in questo film ad avere la “testa sulle spalle”, loro che non vedono un problema nella loro relazione, loro che sono convinti di volersi sposare, di intraprendere una vita insieme per vivere bene. Gli adulti qui sono ragazzi, con le loro crisi e con i loro scatti impulsivi senza senso visti dall’esterno.

Davvero un bel film d’apertura che apre questa 73esima edizione davvero bene (speriamo i film continueranno ad essere interessanti).

TÁR

Non è ancora uscito in tutte le sale, ma dobbiamo parlarvene ora perché è uno dei 5 film drammatici dell’edizione Golden Globe 2023, insieme ad Avatar, Elvis (?), The Fabelmans e Top Gun.

Tár di Todd Field, 158 minuti, è un film autoriale e complesso, che ho dovuto riguardare per scrivere la recensione.

Nel vortice di Venezia79, alle 8 di mattina su una sedia scricchiolante del Palabiennale, un film del genere è stato solamente fonte di noia e di necessita di uscire a metà per poter andare a bere un caffè e fare colazione.

A suo tempo aveva ricevuto solamente 2 stelle, ora, alla seconda visione, il mio parere non è cambiato.

L’opera è un elogio a Cate Blanchett (che vince a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), Todd Field decide di scrivere un film fatto a misura dell’attrice, e lei si trasforma e diventa per oltre due ore e mezza Lidia Tar, una direttrice d’orchestra, genio della musica, molto ricca, molto potente, molto brava, borghese e super acculturata.

Il film inizia con una lunga intervista a Lidia, quasi fosse un documentario, la seguiamo per oltre 20 minuti sul palco di una grande sala con il pubblico, a tenere quasi una masterclass intervistata da un giornalista di un rinomato giornale americano, Lidia dovrà dirigere la 5° sinfonia di Mahler, a Berlino.

Tutta la prima parte del film tiene la struttura quasi di un documentario, scene molto lunghe, molti “monologhi” della protagonista per conoscerne anche la sua vita privata.

Da metà in poi il film si trasforma, iniziamo a capire la vita contorta di Lidia, tra la sua relazione con la compagna, con la figlia, con il pubblico, i suoi musicisti, cerchiamo di essere parte della sua storia ma ne rimarremo sempre fuori (io perlomeno).

Neanche riguardando il film una seconda volta con calma in casa mia, sono riuscito a farmi piacere questo film, per me rimarrà per sempre un film-elogio a Cate Blanchett (bravissima, incredibile, wow).

Drive My Car (Doraibu mai kā)

Ero a Cannes, era Luglio e c’erano tantissimi film da vedere. Ariele era carico per questo film tratto dal libro dallo stesso titolo di Murakami, io non tanto. Entrai comunque alla proiezione, sapendo che se non mi avesse convinto, sarei potuto uscire dopo un’ora e andare a vedere “Flag Day” di Sean Penn.

Dopo i primi 45 minuti ho salutato Ariele e sono uscito dalla sala… 8 mesi dopo quella prima proiezione ho ripreso il film e sono arrivato fino alla fine, il mio parere sul film però non è cambiato, sarà forse il ritmo del film, la tipologia o la mia poca comprensione del giapponese, però il film mi è sembrato durasse mezza giornata.

Allora ho deciso, che non farò la recensione di tutto il film, ma farò finta che duri sono 45 minuti, i primi 45, un bel medio-metraggio giapponese.

Il film inizia con una donna che “recita” un dialogo apparentemente di un romanzo, il marito, che è nel letto con lei le risponde, la lettura del romanzo va avanti e seguiamo i due personaggi fare avanti e indietro dall’aeroporto, prima lei, poi lui, ma la seconda volta lui non decolla e torna a casa. Girata la chiave sentiamo dei gemiti, alcuni vestiti per terra, un assolo di pianoforte di Mozart e la moglie sul divano avvinghiata ad un altro uomo. Il marito esce di soppiatto di casa.

Nei giorni successivi il marito fa finta di niente, ci aspettiamo che ad un certo punto le dica qualcosa… e invece niente…

Pensiamo ci sia crisi nella coppia, che i due non vadano più d’accordo, e invece no, la sera successiva passano una notte passionale, in cui la moglie, durante l’atto, continua a raccontare la storia di una ragazza che, ossessionata da un ragazzo, si intrufola in camera sua e nasconde ogni volta qualcosa nei suoi cassetti.

Il processo di scrittura delle storie della moglie, verrà descritto molto piu avanti nel film dal marito cosi:

“Alla fine divenne un’abitudine. Il sesso è le sue storie erano strettamente collegate, anche se sembrava non esserci un nesso. Alcune volte, cominciava una storia (la moglie) quando era al culmine del piacere, e la portava avanti, era questo il suo modo di scrivere”

Beh che dire, dopo questa introduzione, una normalissima sera il marito torna a casa e trova la moglie sul divano, morta.

Da qui inizia il film, ma i primi 45 minuti sono finiti e quindi vi toccherà guardavi le altre 2 ore e 10 di film rimanenti per scoprire cosa succede…

Buona visione e buona fortuna!