Manodrome

Jesse Eisenberg è stufo di fare sempre la parte dello sfigato e ha così deciso di cambiare completamente tipologia di personaggio. In Manodrome è Ralphie, un giovane uomo che lavora per Uber con una ragazza, Sal, pronta a partorire a momenti. La vita non è facile, nessuno lo tratta seriamente, e i soldi scarseggiano. Come può fare per riprendersi in mano la sua vita? Attraverso un amicizia in comunque, conosce Papà Dan (Adrien Brody) e la sua famiglia, composta esclusivamente da uomini. Questo particolare gruppo vive, per scelta (?), senza donne, convinti che sono proprio loro a scombussolare il cervello di un uomo e a rovinargli la vita. L’unico modo per vivere a pieno è quindi quello di essere in una comune di soli uomini. Ralphie sarà quindi disposto ad abbandonare Sal e il suo futuro figlio per l’ideale malato di uno sconosciuto?

Avete in mente Fight Club? Togliete Fight e avete ottenuto Manodrome. Fin troppo ispirato al film di Fincher, spesso ti chiedi quando inizieranno a menarsi i protagonisti, e ovviamente non succede mai visto che non ha niente a che fare con quella trama. Manodrome tratta la mascolinità tossica esattamente nello stesso modo in cui Fight Club tratta il capitalismo. Non è facile parlare di questo argomento senza entrare nel banale, e purtroppo Manodrome un po’ banalotto lo è. Tranquilli, alla fine Ralphie e Dan non sono la stessa persona (purtroppo), ma non nego di averci pensato più di una volta durante la proiezione.

In fin dei conti Ralphie è un personaggio abbastanza interessante, soprattutto perché interpretato da Jesse Eisenberg. Il classico sfigato vittima di tutto e tutti che non riesce in nessun modo a farsi valere. Ossessionato dalla palestra, cerca un modo per essere soddisfatto di sé stesso, ed è soltanto sollevando pesi come un mulo e ammirandosi allo specchio che trova un po’ di pace. Lo stress della vita di tutti i giorni lo schiaccia a tal punto da chiedere aiuto a Dan e “famiglia”. Ed è qui che mi sono sorte le prime domande. Ralphie li contatta esclusivamente per bisogno di denaro e, a parte qualche paio di scarpe e una maglietta, non c’è nessun vero scambio di soldi tra Ralphie e gli altri. Papà Dan gli spiega il concetto della loro comune, Ralphie è insicuro e basta, il resto è un tira e molla tra i due. Il viaggio psicologico del protagonista, che alla fine veniva costruito con un climax, rimane completamente in stallo dal momento che appare Adrien Brody, fino alla fine del film in cui c’è l’epifania conclusiva. Lo trovo abbastanza un peccato, siccome lascia molto non detto, bisogna capire tutto esclusivamente dalle espressioni di Jesse Eisenberg (che in realtà fa un ottimo lavoro in questa parte).

Non c’è più molto altro da dire riguardo Manodrome. Sembra una riflessione lasciata a metà sulla mascolinità di cui non si vuole mai parlare e, anche qui, viene esplorata poco per lasciare spazio ad un gruppo di fanatici senza spiegare cosa fanno veramente.

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Blackberry

La mia relazione di amore/odio con i film biografici continua, stavolta, grazie a dio, in positivo, probabilmente perché in questo caso non si parla di un biopic su un personaggio specifico, bensì su uno dei telefoni di più successo della storia della tecnologia: ovviamente il Blackberry. Per quanto la trama non sia né accattivante e nemmeno originale, il film riesce ad incollare lo spettatore allo schermo in modo molto intelligente.

Non siamo a Los Angeles o nella Silicon Valley, ma soltanto in un ufficio pieno di sfigati nel bel mezzo di Ontario, in Canada. Loro formano la Research In Motion, di cui Mike Lazaridis è CEO e Douglas mascotte ufficiale. Stanno per preparare il prototipo di un telefono che permetterà di inviare anche delle e-mail: sarà proprio come avere un computer nelle proprie mani. Ovviamente mancano i soldi e, dopo vari scontri, fanno squadra con Jim Balsillie, un agguerritissimo uomo d’affari pronto a tutto pur di far soldi. Così nasce il Blackberry, il famosissimo smartphone con la tastiera dominerà il mercato per anni. Tutto va bene, finché, nel 2007, la Apple organizza una misteriosa presentazione destinata a cambiare le sorti dell’azienda.

Il film è semplice, lineare e a tratti anche molto divertente. Ti permette di seguire la trama a volte complessa, tra pugnalate alla schiena e contratti illegali, tranquillamente e senza troppe domande. Lo stile di regia (il regista, Matt Johnson, interpreta anche Douglas) è chiaramente ispirato a quello di Adam McKay: camera quasi sempre in movimento, zoom veloci, da sembrare quasi un mockumentary. Ha forse esagerato con gli zoom, dopo due ora la tecnica risultava ripetitiva e non dava più nulla di nuovo al racconto o all’inquadratura, sembrava semplicemente la continuazione dello stile che aveva all’inizio. Infatti, inizialmente con questa tipologia di zoom permetteva di concentrarsi su determinati dettagli spesso ricorrenti nel film, in particolare un ronzio che fuoriesce dagli oggetti elettronici made in China che Mike tanto detesta. La macchina da presa è sempre pronta ad evidenziare gli oggetti, le espressioni e le reazioni di ogni personaggio. Ed è proprio questo che rende il film più fluido e altrettanto divertente, soprattutto per il personaggio di Douglas, un classico nerd senza freni completamente fuori dalla sua comfort zone quando si tratta di affari.

La storia è raccontata, per la maggior parte del tempo, dal punto di vista di Mike, la mente di tutto il progetto. Il film evolve così come cambia Mike: se all’inizio i colori erano forti e caldi come il suo carattere, alla fine tutto diventa cupo e freddo, esattamente come Mike. La sua ossessione per riuscire a creare il prodotto perfetto è infine quella che fa cadere l’impero che lui stesso ha costruito. Sentendosi il re di un mercato completamente nuovo da lui creato, quello degli smartphone, rimane schiacciato dalla sua stessa evoluzione. Alla fine si rivela essere una persona legata unicamente all’orgoglio, senza comprendere minimamente quello che gli succede intorno, e diventa così non solo una vittima degli eventi, ma soprattutto una vittima di sé stesso. Nemmeno la fatidica presentazione dell’iPhone riesce a fargli aprire gli occhi, e accecato dall’orgoglio continua ad affermare che lo schermo tattile è un’idea idiota, i consumatori vogliono il click della tastiera Blackberry. Beh, ovviamente sappiamo com’è andata a finire.

Il film dà il meglio proprio nella scena finale, che chiude il cerchio evolutivo di Mike. Nei primi minuti del film, vediamo Mike che, pur di far smettere quel fastidiosissimo ronzio made in China che esce da un altoparlante, lo apre e lo aggiusta pochi secondi prima dell’importantissimo pitch del Blackberry. Nella scena finale, vediamo Mike completamente trasformato in un uomo d’affari, intento ad aprire il nuovo modello Blackberry Bold arrivato dalle nuove fabbriche cinesi. Lo accende e sente il ronzio. Lo apre e lo aggiusta. Apre un altra scatola e fa lo stesso. Si trova in un magazzino, solo, con migliaia e migliaia di telefoni difettosi. Il capitano affonda su una nave che nemmeno conosce.

Voto: 3.5/5

Reality

105 minuti di interrogatorio, lineari, non romanzati, non arricchiti di particolari, solo la messa in scena nuda e cruda della registrazione audio effettuata dall’FBI il 3 giugno 2017 in una piccola casa della Georgia.

Reality torna a casa in auto, parcheggia e non ha il tempo di uscire dall’abitacolo che due uomini bussano al suo finestrino e le si presentano come due ufficiali del Federal Bureau con un mandato di perquisizione per casa sua.

Tutti rimangono molto tranquilli e la registrazione audio procede, con la trascrizione addirittura del cane quando abbaia, dei colpi di tosse, delle risatine tra i due colleghi che conducono l’interrogatorio e così via.

Reality è accusata di “rimozione di materiale classificato da una struttura governativa e invio a un organo di stampa”, è riuscita a trafugare dei documenti top secret riguardo lo spionaggio da parte dei russi verso gli Stati Uniti durante le elezioni di Trump nel 2016.
L’FBI riesce a rintracciarla e la arresta alla fine dell’interrogatorio effettuato nella sua casa in Georgia.

Potremmo guadare questo film in due modi, sotto due chiavi di lettura differenti:

Da una parte, si potrebbe criticare dicendo che è come una puntata di un qualsiasi programma di RealTime, dove si ricrea tutta una scena, semplicemente che con un budget maggiore.

Dall’altra parte, quando un film è biografico e non si attiene alla realtà al 100%, ci si lamenta perché non è fedele ai fatti realmente accaduti… quindi o in un modo o nell’altro fondamentalmente non ci va bene nulla… e quindi trovo che questo film, anche se “solamente” una messa in scena, è davvero fatto bene e racconta la storia complessa del mondo dei Wistleblower di tutto il mondo.

L’interpretazione di Sydney Sweeney (nel ruolo di Reality Winner) è davvero notevole, lei che fino a questo film aveva lavorato per la maggior parte per prodotti televisivi (Euphoria, The Handmaid’s Tale, …), in questo film struttrato quasi unicamente da monologhi ai quali bisogna attenersi parola per parola senza poter improvvisare nulla, se la cava davvero bene.

Nel 2019 la regista Tina Satter, mette in scena “Is this a room”, uno spettacolo teatrale della trascrizione dell’interrogatorio, 4 anno più tardi arriva alla Berlinale nella sezione “Panorama”.

Quindi per concludere, “Reality” è un film lineare, teatrale e senza la pretesa di giudicare.
Il film ci presenta senza giudizio una storia che saremo noi a giudicare, saremo noi a capire e a prendere le parti.  

Il potere delle decisioni politiche, la quantità di informazioni top secret che non potremo mai sapere e le tecniche di dissuasione che l’FBI utilizza durante i suoi interrogatori, tanti elementi che ci vengono presentati semplicemnte rimettendo in scena una registrazione audio vera di un’ora e mezza.

She Came to Me

Non conoscevo Rebecca Miller e non ho scelto di guardare il film perché estremamente interessato alla trama, ho riservato il mio posto in sala perché sto pochi giorni a Berlino e quindi voglio guardare tutto quello che posso, ma uscito dalla proiezione posso dire che sono contento di aver preso il biglietto, perché “She Came to Me” mi è piaciuto!

Siamo a New York e il compositore di opere liriche Steven (Peter Dinklage) ha un “blocco dello scrittore”. Durante una sua passeggiata in giro per Brooklyn incontra per caso una donna che lavora come capitano su una vecchia nave, e dopo una notte di passione ritrova l’ispirazione per la sua prossima opera lirica.

Intanto il figlio di sua moglie (Anne Hathaway) inizia a frequentare una ragazza di 16 anni. Le famiglie nel corso del film si intrecciano e sarà difficile per ogni personaggio riuscire a liberarsi dall’ingroviglio che si è creato.

Il film racconta una storia semi-realistica, non ci racconta il caos di New York, ma quanto posano essere caotiche delle famiglie insospettabili dell’alta borghesia americana.

Trovo super interessante la rappresentazione, se vogliamo stravolta, degli adulti e dei ragazzi.
Steven, l’adulto, si fa guidare dal suo cane per trovare la musa che “guarirà” la sua creatività compositiva. Sua moglie, psicologa, avrà un momento di fobia sui kreplach (una spece di raviolo della cucina tradizionale ebraica).

Sono i ragazzi invece in questo film ad avere la “testa sulle spalle”, loro che non vedono un problema nella loro relazione, loro che sono convinti di volersi sposare, di intraprendere una vita insieme per vivere bene. Gli adulti qui sono ragazzi, con le loro crisi e con i loro scatti impulsivi senza senso visti dall’esterno.

Davvero un bel film d’apertura che apre questa 73esima edizione davvero bene (speriamo i film continueranno ad essere interessanti).