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Ant-Man and the Wasp: Quantumania

Un titolo che di sicuro riempie la bocca per un film che ti svuota il cervello. Dopo aver visto le svariate recensioni negative, la curiosità di vedere l’ultimo film dei Marvel Studios era alle stelle. Per anni sono stati idolatrati per ogni minimo prodotto che facevano, solo negli ultimi mesi vengono, giustamente, criticati (ehm ehm She-Hulk). Premesso che, fino a Endgame, mi ritenevo un grande fan del MCU, ma una volta finita l’Infinity Saga è abbastanza palese che in casa Marvel non sanno proprio che pesci pigliare. Ma andiamo con ordine.

Ve la faccio breve, Scott Lang e la sua compagnia di umani-insetti (Hope, Janet, Hank e Cassie) finiscono nel reame quantico, un universo piccolissimo nascosto “sotto” al nostro. Si scopre che è abitato da molti personaggi stravaganti, tutti minacciati dal potentissimo Kang, soprannominato il Conquistatore. La gang dovrà trovare il modo per riuscire a tornare sulla Terra e riuscire a fermare Kang nella conquista del multiverso.

Va detto che questo film ha un peso enorme: non solo inizia la Fase 5 dell’universo Marvel, ma introduce ufficialmente quello che sarà il cattivo principale di tutta la saga. Levati Thanos, adesso c’è Kang che, non solo minaccia la Terra, bensì tutti gli universi esistenti. Tutto questo lo deve fare con la solita ironia da quattro soldi tipica di Ant-Man, che non trova nessuno spazio in una trama che traballa dopo ogni frase. Una cosa che trovo affascinante nei film Marvel è il fatto che non hanno bisogno di un introduzione. Noi già conosciamo i personaggi, dove sono, cosa hanno fatto e cosa fanno. La struttura narrativa tipica di un film non regge quando si parla di Marvel, perché non abbiamo bisogno di nessuna introduzione, sappiamo già tutto quello che abbiamo bisogno. Così il film inizia subito nella prima decina di minuti, senza troppi fronzoli. Quindi dove sta il problema? Non solo l’introduzione viene saltata per i personaggi che già conosciamo, ma anche per quelli che non abbiamo mai visto. I novellini vengono quindi molto spesso sbolognati con una frase: “Ciao sono [INSERIRE IL NOME] e sto dalla tua parte per [INSERIRE IL MOTIVO]” (gli sceneggiatori vanno in panico quando il personaggio non sta dalla parte del protagonisti). Il film è quindi un miscuglio di personaggi che si pensa di conoscere, ma che sono in realtà tutti uguali.

L’unica cosa che viene fatta vene in questo film è l’introduzione di Kang. Non è facile seguire il concetto di multiverso in questa nuova saga, essendo sparsa tra film e serie nel corso di mesi e mesi, ma grazie anche a una bella interpretazione di Jonathan Majors, si capisce la minaccia di Kang, da dove viene e, soprattutto, la sua particolarità (che non sto qui a spiegare, guardate la scena a metà titoli di coda). Rimane però un problema, ed è quella magia che in questi nuovi film si sta perdendo. Questo nuovo cattivo non viene costruito con un climax, bensì lo vediamo così di botto, sparso ovunque nel multiverso, senza un vero motivo. Insomma, sembra una minaccia che è sempre stata presente, ma ce la presentano come una novità. Se prendiamo l’esempio di Thanos, prima di vederlo come una grossa minaccia sono passati anni, veniva nominato qua e là o mostrato in qualche breve scena, mai come un cattivo principale. Ed era proprio questo il bello della saga passata: anche se i film non erano direttamente legati tra loro, c’era un fil rouge che continuava grazie alle gemme dell’infinito e, in sottofondo, Thanos. Adesso, nel disperato bisogno di un appiglio per catturare il disinteresse dei fan, ci sparano in faccia tutto quello che c’è da sapere su Kang. Peccato.

Tutto sommato si può dire che, attraverso Kang, il film sa dove vuole andare e cosa ci vuole presentare. Purtroppo, non ha la minima idea di come farlo. È come se chi avesse girato questo film aveva solo la pagina iniziale e la pagina finale, tutto quello che ci sta in mezzo è stato messo all’ultimo. Vi faccio un esempio: Scott e Cassie arrivano in un villaggio pieno di alieni, tutti pensano che loro siano cattivi e non credono a nulla di quello che dicono. Per fortuna arriva un tizio (di cui ovviamente non ricordo il nome) che è in grado di leggere nella mente. Lui arriva, fanno quattro battute terrificanti, legge nella mente di Scott e Cassie, dice “hanno ragione, non sanno niente, sono bravi”, va via e poco dopo muore. Un personaggio inutile, creato solo ed esclusivamente per tagliare la trama finita in un vicolo cieco. Ed è pieno di momenti così, alcuni più imbarazzanti di altri, che fanno saltare i personaggi da un posto all’altro, fino ad arrivare alla conclusione. E, mamma mia, parliamo della fine. Io non so cosa voglia dirci la Marvel sulle formiche, sono arrivati ad un livello di disperazione molto alto. L’esercito di Kang viene distrutto grazie alle formiche giganti super-intelligenti di Hank, ecco. Questa è la fine di due ore di film. Scott non fa un cazzo eh, tutto le formiche che, prima di entrare nel reame quantico sono finite in un wormhole e, dopo millenni, si sono evolute e hanno ritrovato Hank!! Gli sceneggiatori stanno male.

La Marvel fino a qualche anno fa riusciva a prendere tutto quello che voleva e metterlo sullo schermo in modo molto credibile. Ce l’ha fatta, contro ogni previsione, con il primo Ant-Man. Adesso hanno completamente perso questo pregio, già si vedeva in Thor Love & Thunder, ma qui siamo ad un livello molto più alto. Se un personaggio non è credibile, lo spettatore non è convinto e la storia non viene ascoltata. Questo film ne è la dimostrazione. Hanno pure provato a fare MODOK in live action: dal primo frame in cui si vedeva questa testa gigante volare in giro tutti in sala ridevano.

Il tutto è coronato da delle interpretazioni pessime, soprattutto di Kathryn Newton (Cassie), di cui è stato fatto un recast. Meglio tornare con l’attrice originale. L’unico che spicca è Kang e quei pochi minuti con Bill Murray.

Volevo provare a fare una riflessione un po’ più profonda sul futuro dell’MCU, ma mi trovo accecato dalla delusione. Stanno cercando di fare tutto e subito, nel modo più sbagliato possibile. I film e le serie escono a caso. Non c’è più nessun legame tra di loro. La coesione che caratterizzava il re dei blockbuster è stata completamente persa, e noi spettatori (e un po’ fan), come loro, arranchiamo nel buio di storie che non vanno da nessuna parte.

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Manodrome

Jesse Eisenberg è stufo di fare sempre la parte dello sfigato e ha così deciso di cambiare completamente tipologia di personaggio. In Manodrome è Ralphie, un giovane uomo che lavora per Uber con una ragazza, Sal, pronta a partorire a momenti. La vita non è facile, nessuno lo tratta seriamente, e i soldi scarseggiano. Come può fare per riprendersi in mano la sua vita? Attraverso un amicizia in comunque, conosce Papà Dan (Adrien Brody) e la sua famiglia, composta esclusivamente da uomini. Questo particolare gruppo vive, per scelta (?), senza donne, convinti che sono proprio loro a scombussolare il cervello di un uomo e a rovinargli la vita. L’unico modo per vivere a pieno è quindi quello di essere in una comune di soli uomini. Ralphie sarà quindi disposto ad abbandonare Sal e il suo futuro figlio per l’ideale malato di uno sconosciuto?

Avete in mente Fight Club? Togliete Fight e avete ottenuto Manodrome. Fin troppo ispirato al film di Fincher, spesso ti chiedi quando inizieranno a menarsi i protagonisti, e ovviamente non succede mai visto che non ha niente a che fare con quella trama. Manodrome tratta la mascolinità tossica esattamente nello stesso modo in cui Fight Club tratta il capitalismo. Non è facile parlare di questo argomento senza entrare nel banale, e purtroppo Manodrome un po’ banalotto lo è. Tranquilli, alla fine Ralphie e Dan non sono la stessa persona (purtroppo), ma non nego di averci pensato più di una volta durante la proiezione.

In fin dei conti Ralphie è un personaggio abbastanza interessante, soprattutto perché interpretato da Jesse Eisenberg. Il classico sfigato vittima di tutto e tutti che non riesce in nessun modo a farsi valere. Ossessionato dalla palestra, cerca un modo per essere soddisfatto di sé stesso, ed è soltanto sollevando pesi come un mulo e ammirandosi allo specchio che trova un po’ di pace. Lo stress della vita di tutti i giorni lo schiaccia a tal punto da chiedere aiuto a Dan e “famiglia”. Ed è qui che mi sono sorte le prime domande. Ralphie li contatta esclusivamente per bisogno di denaro e, a parte qualche paio di scarpe e una maglietta, non c’è nessun vero scambio di soldi tra Ralphie e gli altri. Papà Dan gli spiega il concetto della loro comune, Ralphie è insicuro e basta, il resto è un tira e molla tra i due. Il viaggio psicologico del protagonista, che alla fine veniva costruito con un climax, rimane completamente in stallo dal momento che appare Adrien Brody, fino alla fine del film in cui c’è l’epifania conclusiva. Lo trovo abbastanza un peccato, siccome lascia molto non detto, bisogna capire tutto esclusivamente dalle espressioni di Jesse Eisenberg (che in realtà fa un ottimo lavoro in questa parte).

Non c’è più molto altro da dire riguardo Manodrome. Sembra una riflessione lasciata a metà sulla mascolinità di cui non si vuole mai parlare e, anche qui, viene esplorata poco per lasciare spazio ad un gruppo di fanatici senza spiegare cosa fanno veramente.

Blackberry

La mia relazione di amore/odio con i film biografici continua, stavolta, grazie a dio, in positivo, probabilmente perché in questo caso non si parla di un biopic su un personaggio specifico, bensì su uno dei telefoni di più successo della storia della tecnologia: ovviamente il Blackberry. Per quanto la trama non sia né accattivante e nemmeno originale, il film riesce ad incollare lo spettatore allo schermo in modo molto intelligente.

Non siamo a Los Angeles o nella Silicon Valley, ma soltanto in un ufficio pieno di sfigati nel bel mezzo di Ontario, in Canada. Loro formano la Research In Motion, di cui Mike Lazaridis è CEO e Douglas mascotte ufficiale. Stanno per preparare il prototipo di un telefono che permetterà di inviare anche delle e-mail: sarà proprio come avere un computer nelle proprie mani. Ovviamente mancano i soldi e, dopo vari scontri, fanno squadra con Jim Balsillie, un agguerritissimo uomo d’affari pronto a tutto pur di far soldi. Così nasce il Blackberry, il famosissimo smartphone con la tastiera dominerà il mercato per anni. Tutto va bene, finché, nel 2007, la Apple organizza una misteriosa presentazione destinata a cambiare le sorti dell’azienda.

Il film è semplice, lineare e a tratti anche molto divertente. Ti permette di seguire la trama a volte complessa, tra pugnalate alla schiena e contratti illegali, tranquillamente e senza troppe domande. Lo stile di regia (il regista, Matt Johnson, interpreta anche Douglas) è chiaramente ispirato a quello di Adam McKay: camera quasi sempre in movimento, zoom veloci, da sembrare quasi un mockumentary. Ha forse esagerato con gli zoom, dopo due ora la tecnica risultava ripetitiva e non dava più nulla di nuovo al racconto o all’inquadratura, sembrava semplicemente la continuazione dello stile che aveva all’inizio. Infatti, inizialmente con questa tipologia di zoom permetteva di concentrarsi su determinati dettagli spesso ricorrenti nel film, in particolare un ronzio che fuoriesce dagli oggetti elettronici made in China che Mike tanto detesta. La macchina da presa è sempre pronta ad evidenziare gli oggetti, le espressioni e le reazioni di ogni personaggio. Ed è proprio questo che rende il film più fluido e altrettanto divertente, soprattutto per il personaggio di Douglas, un classico nerd senza freni completamente fuori dalla sua comfort zone quando si tratta di affari.

La storia è raccontata, per la maggior parte del tempo, dal punto di vista di Mike, la mente di tutto il progetto. Il film evolve così come cambia Mike: se all’inizio i colori erano forti e caldi come il suo carattere, alla fine tutto diventa cupo e freddo, esattamente come Mike. La sua ossessione per riuscire a creare il prodotto perfetto è infine quella che fa cadere l’impero che lui stesso ha costruito. Sentendosi il re di un mercato completamente nuovo da lui creato, quello degli smartphone, rimane schiacciato dalla sua stessa evoluzione. Alla fine si rivela essere una persona legata unicamente all’orgoglio, senza comprendere minimamente quello che gli succede intorno, e diventa così non solo una vittima degli eventi, ma soprattutto una vittima di sé stesso. Nemmeno la fatidica presentazione dell’iPhone riesce a fargli aprire gli occhi, e accecato dall’orgoglio continua ad affermare che lo schermo tattile è un’idea idiota, i consumatori vogliono il click della tastiera Blackberry. Beh, ovviamente sappiamo com’è andata a finire.

Il film dà il meglio proprio nella scena finale, che chiude il cerchio evolutivo di Mike. Nei primi minuti del film, vediamo Mike che, pur di far smettere quel fastidiosissimo ronzio made in China che esce da un altoparlante, lo apre e lo aggiusta pochi secondi prima dell’importantissimo pitch del Blackberry. Nella scena finale, vediamo Mike completamente trasformato in un uomo d’affari, intento ad aprire il nuovo modello Blackberry Bold arrivato dalle nuove fabbriche cinesi. Lo accende e sente il ronzio. Lo apre e lo aggiusta. Apre un altra scatola e fa lo stesso. Si trova in un magazzino, solo, con migliaia e migliaia di telefoni difettosi. Il capitano affonda su una nave che nemmeno conosce.

Voto: 3.5/5

Reality

105 minuti di interrogatorio, lineari, non romanzati, non arricchiti di particolari, solo la messa in scena nuda e cruda della registrazione audio effettuata dall’FBI il 3 giugno 2017 in una piccola casa della Georgia.

Reality torna a casa in auto, parcheggia e non ha il tempo di uscire dall’abitacolo che due uomini bussano al suo finestrino e le si presentano come due ufficiali del Federal Bureau con un mandato di perquisizione per casa sua.

Tutti rimangono molto tranquilli e la registrazione audio procede, con la trascrizione addirittura del cane quando abbaia, dei colpi di tosse, delle risatine tra i due colleghi che conducono l’interrogatorio e così via.

Reality è accusata di “rimozione di materiale classificato da una struttura governativa e invio a un organo di stampa”, è riuscita a trafugare dei documenti top secret riguardo lo spionaggio da parte dei russi verso gli Stati Uniti durante le elezioni di Trump nel 2016.
L’FBI riesce a rintracciarla e la arresta alla fine dell’interrogatorio effettuato nella sua casa in Georgia.

Potremmo guadare questo film in due modi, sotto due chiavi di lettura differenti:

Da una parte, si potrebbe criticare dicendo che è come una puntata di un qualsiasi programma di RealTime, dove si ricrea tutta una scena, semplicemente che con un budget maggiore.

Dall’altra parte, quando un film è biografico e non si attiene alla realtà al 100%, ci si lamenta perché non è fedele ai fatti realmente accaduti… quindi o in un modo o nell’altro fondamentalmente non ci va bene nulla… e quindi trovo che questo film, anche se “solamente” una messa in scena, è davvero fatto bene e racconta la storia complessa del mondo dei Wistleblower di tutto il mondo.

L’interpretazione di Sydney Sweeney (nel ruolo di Reality Winner) è davvero notevole, lei che fino a questo film aveva lavorato per la maggior parte per prodotti televisivi (Euphoria, The Handmaid’s Tale, …), in questo film struttrato quasi unicamente da monologhi ai quali bisogna attenersi parola per parola senza poter improvvisare nulla, se la cava davvero bene.

Nel 2019 la regista Tina Satter, mette in scena “Is this a room”, uno spettacolo teatrale della trascrizione dell’interrogatorio, 4 anno più tardi arriva alla Berlinale nella sezione “Panorama”.

Quindi per concludere, “Reality” è un film lineare, teatrale e senza la pretesa di giudicare.
Il film ci presenta senza giudizio una storia che saremo noi a giudicare, saremo noi a capire e a prendere le parti.  

Il potere delle decisioni politiche, la quantità di informazioni top secret che non potremo mai sapere e le tecniche di dissuasione che l’FBI utilizza durante i suoi interrogatori, tanti elementi che ci vengono presentati semplicemnte rimettendo in scena una registrazione audio vera di un’ora e mezza.

She Came to Me

Non conoscevo Rebecca Miller e non ho scelto di guardare il film perché estremamente interessato alla trama, ho riservato il mio posto in sala perché sto pochi giorni a Berlino e quindi voglio guardare tutto quello che posso, ma uscito dalla proiezione posso dire che sono contento di aver preso il biglietto, perché “She Came to Me” mi è piaciuto!

Siamo a New York e il compositore di opere liriche Steven (Peter Dinklage) ha un “blocco dello scrittore”. Durante una sua passeggiata in giro per Brooklyn incontra per caso una donna che lavora come capitano su una vecchia nave, e dopo una notte di passione ritrova l’ispirazione per la sua prossima opera lirica.

Intanto il figlio di sua moglie (Anne Hathaway) inizia a frequentare una ragazza di 16 anni. Le famiglie nel corso del film si intrecciano e sarà difficile per ogni personaggio riuscire a liberarsi dall’ingroviglio che si è creato.

Il film racconta una storia semi-realistica, non ci racconta il caos di New York, ma quanto posano essere caotiche delle famiglie insospettabili dell’alta borghesia americana.

Trovo super interessante la rappresentazione, se vogliamo stravolta, degli adulti e dei ragazzi.
Steven, l’adulto, si fa guidare dal suo cane per trovare la musa che “guarirà” la sua creatività compositiva. Sua moglie, psicologa, avrà un momento di fobia sui kreplach (una spece di raviolo della cucina tradizionale ebraica).

Sono i ragazzi invece in questo film ad avere la “testa sulle spalle”, loro che non vedono un problema nella loro relazione, loro che sono convinti di volersi sposare, di intraprendere una vita insieme per vivere bene. Gli adulti qui sono ragazzi, con le loro crisi e con i loro scatti impulsivi senza senso visti dall’esterno.

Davvero un bel film d’apertura che apre questa 73esima edizione davvero bene (speriamo i film continueranno ad essere interessanti).

TÁR

Non è ancora uscito in tutte le sale, ma dobbiamo parlarvene ora perché è uno dei 5 film drammatici dell’edizione Golden Globe 2023, insieme ad Avatar, Elvis (?), The Fabelmans e Top Gun.

Tár di Todd Field, 158 minuti, è un film autoriale e complesso, che ho dovuto riguardare per scrivere la recensione.

Nel vortice di Venezia79, alle 8 di mattina su una sedia scricchiolante del Palabiennale, un film del genere è stato solamente fonte di noia e di necessita di uscire a metà per poter andare a bere un caffè e fare colazione.

A suo tempo aveva ricevuto solamente 2 stelle, ora, alla seconda visione, il mio parere non è cambiato.

L’opera è un elogio a Cate Blanchett (che vince a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), Todd Field decide di scrivere un film fatto a misura dell’attrice, e lei si trasforma e diventa per oltre due ore e mezza Lidia Tar, una direttrice d’orchestra, genio della musica, molto ricca, molto potente, molto brava, borghese e super acculturata.

Il film inizia con una lunga intervista a Lidia, quasi fosse un documentario, la seguiamo per oltre 20 minuti sul palco di una grande sala con il pubblico, a tenere quasi una masterclass intervistata da un giornalista di un rinomato giornale americano, Lidia dovrà dirigere la 5° sinfonia di Mahler, a Berlino.

Tutta la prima parte del film tiene la struttura quasi di un documentario, scene molto lunghe, molti “monologhi” della protagonista per conoscerne anche la sua vita privata.

Da metà in poi il film si trasforma, iniziamo a capire la vita contorta di Lidia, tra la sua relazione con la compagna, con la figlia, con il pubblico, i suoi musicisti, cerchiamo di essere parte della sua storia ma ne rimarremo sempre fuori (io perlomeno).

Neanche riguardando il film una seconda volta con calma in casa mia, sono riuscito a farmi piacere questo film, per me rimarrà per sempre un film-elogio a Cate Blanchett (bravissima, incredibile, wow).

M3GAN

Il cinema è imprevedibile: nel 2022 sono usciti i blockbuster più proficui della storia del cinema, ma anche quelli con una perdita incredibile, per non parlare di tutti i film di nicchia che hanno fatto un successo strepitoso. Insomma, mai come oggi non si sa mai cosa aspettarsi quando si entra in sala, sarà la solita solfa con niente di nuovo? Avrà fatto successo solo grazie al marketing aggressivo sui social? O è un film veramente valido?

Entrando in sala per vedere M3GAN le mie aspettative erano meno di zero. È il solito film horror impacchettato di jump scares, trama banale ed ecco tutto (insomma, come Smile). Mi sono sbagliato? Eccome se mi sono sbagliato! Intendiamoci, non è il capolavoro del secolo, la trama non è così originale, gli attori non sono incredibili e il finale è ridicolo, ma ha molto di più di quel che ci si aspetta.

Gemma è la programmatrice di punta della multinazionale di giocatticoli Funki, pronta ad uscire con il suo nuovo prototipo, Megan appunto. Per testarla, le fa conoscere Cady, sua nipote, che ha appena perso i genitori in un incidente stradale. Cady è entusiasta del suo nuovo giocattolo iper tecnologico, ma Megan si vede molto di più di un semplice soprammobile…

Mi aspettavo una copia sputata di Chucky e, nonostante il concetto di “bambola assassina” ci sia lo stesso, i due sono molto diversi. Niente a che fare con spiriti e anime, M3GAN è un intelligenza artificiale che, più passa tempo con il suo utilizzatore primario, più impara e più la protegge. So cosa stante pensando, questo film potrebbe tranquillamente essere un episodio qualsiasi di Black Mirror, niente di nuovo. Assolutamente, avete pienamente ragione, la qualità non è così lontana da Black Mirror. Per un horror del genere non ci si aspetta una trama elaborata, e nemmeno una vera spiegazione del perché il cattivo compie azioni cattive, eppure M3GAN passa molto tempo a raccontare non solo la nascita della bambola, ma anche la situazione sia economica che sociale in cui sta nascendo. Lo spettatore vede chiaramente perché Megan è stata creata e nulla è tirato fuori dal caso solo per avere una bambola omicida nella trama, la storia ha un senso, ed è anche molto interessante.

La cosa che più mi ha colpito è come Megan viene sfruttata. Mi spiego: non è soltanto lì per impazzire ed uccidere tutti, bensì fa uscire ben più di qualche riflessione. Iniziando dalle basi, la trama si concentra molto sull’Intelligenza Artificiale e le sue possibili evoluzioni, fin qui nulla di nuovo, potrebbe essere un Terminator qualsiasi. Finché si sviluppa e si riflette sul concetto di giocattolo: qual’è il vero scopo di Megan? Giocare coi bambini? Aiutare i genitori? Più Megan passa tempo con Cady, più il loro legame diventa forte (non dimentichiamo che i genitori di Cady sono appena morti, e la zia Gemma è molto distante per via del lavoro). La bambina non vuole fare altro che passare del tempo con la sua bambola iper-tecnologica, invece di stare con persone della sua età o addirittura parlare con la sua tutrice. Le critiche sono abbastanza ovvie, c’è un fondo di verità in tutto quello che il film espone, e la domanda che hai in testa alla fine sarà: qual’è la differenza tra una Megan e un iPad? Si ok, l’iPad non ammazza nessuno, ma avete capito il concetto.

È molto interessante anche il personaggio di Gemma, la zia e tutrice di Cady. Lei è la fiera creatrice di Megan, pronta a fare dei gran soldi grazie al giocattolo che porterà tutti gli altri giocattoli alla discarica. Dopo la morte della sorella, le viene chiesto di prendere in mano la vita di Cady, nonostante non sia per nulla adatta ad un lavoro così grande e difficile. Per tutta la sua vita ha messo come priorità assoluta il lavoro, l’arrivo della nipotina orfana le obbliga a dover rivedere ogni sua abitudine. Inizialmente la relazione tra le due è molto molto distanze, poi Gemma si rende conto di poter usare Cady per creare dei giocattoli migliori, e da lì finisce il primo prototipo di Megan. Nonostante Cady ci provi sempre ad avere un minimo contatto con la zia, lei vede la relazione in modo completamente differente e, ancora una volta, legato al lavoro, l’unica cosa che Gemma conosce. Solo alla fine (per ovvi motivi) le due si avvicinano definitivamente.

M3GAN è un horror? No, assolutamente. È piuttosto un film fantascientifico, con qualche risata qua e là e un finale proprio brutto. Eh si, come spesso accade, gli ultimi minuti di questo film hanno proprio rovinato tutta la magia che è stata creata in precedenza. Me lo aspettavo? Certo. Sono comunque deluso? Purtroppo si. In ogni caso, M3GAN è un film che mi ha estremamente sorpreso, e mi dà qualche speranza per il genere horror, che io amo tanto e da anni viene sempre più maltrattato. Ci vediamo tra qualche anno, quando M3GAN 2 uscirà e diventerà il film con più incassi della storia del cinema.

The Fabelmans

Ormai lo so, per me guardare un film senza lasciarmi trasportare dalle emozioni, e riuscire ad analizzarlo e scriverne in modo oggettivo senza attaccarmi emotivamente, è completamente impossibile. Cercherò di parlarne senza farmi tonare il magone in gola e la voglia di piangere ripensando a tutto quello che questo film ha smosso dentro di me senza neanche me ne accorgessi.

Spielberg, al 34esimo film e pochi giorni dopo il suo 76esimo compleanno, ci trasporta nuovamente nel suo mondo, sempre più in profondità, sempre più nella sua vita personale.

Una spiegazione individuale di quello che è per lui il cinema, di quello che è la famiglia e di tutto quello che ogni giorno sono gli ostacoli della vita verso le propie passioni e i propri sogni.

Il film si apre con la prima esperienza cinematografica del piccolo Sammy Fabelmans, figlio di un ingegnere provetto e una madre artista. Questa divisione famigliare sarà presente nella crescita del ragazzo, che già dall’inizio della sua “carriera cinematografica”, inizierà a creare cortometraggi unendo l’immensa quantità d’inventiva tramandatagli dalla madre e l’ingegnosità tecnica dal padre, per risolvere problemi cinematografici pratici come quello di dare l’impressione che le pistole di ragazzini cowboy in una delle sue prime pellicole, sparino davvero.

“I film sono sogni che non dimenticherai mai” gli sussurra la madre prima di entrare nella sala cinematografica dalla quale nascerà tutta la storia del ragazzo.

Un incidente sullo schermo rimarrà scalfitto nella memoria di Sammy, che tornato a casa cercherà di riprodurre l’incidente con i suoi giocattoli filmandoli e rendendo cosi l’incidente, riproducibile tutte le volte che vorrà “fino a che avrà affrontato la paura di quella scena”.

La storia diventa anche una crescita forzata di adattamento dei ragazzi, che, dovendo seguire il padre nei suoi cambi di lavoro, si spostano da uno stato all’altro dell’America degli anni ’60-’70. Sammy continuerà a seguire la sua passione, realizzando piccoli cortometraggi e un filmato rappresentativo della gita di fine anno della sua nuova scuola. Con una cinepresa prestatagli dal padre della sua ragazza, Sammy filma tutti i giochi fatti sulla spiaggia, e rappresenta in maniera eroica quel ragazzo che qualche settimana prima l’aveva bullizzato davanti a tutti i suoi amici.

Quelle immagini proiettate sullo schermo davanti tutti alla festa di fine anno, dimostrano il potere del cinema e quello che delle “semplici” immagini possono produrre.

Gli ultimi momenti del film poi, sono una vera lezione che Spielberg decide di mettere in atto: tutto quello che conta nel cinema non è necessariamente quello che si racconta, ma il come lo si decide di fare. Il cinema è il punto di vista dell’artista che rende unica una situazione.

In questo incredibile film, Spielberg riesce a raccontare sé stesso, i suoi sogni, una sua autobiografia di quello che ha imparato nei suoi molteplici anni nell’industria cinematografica.

Quasi in un linguaggio fiabesco, Spielberg ci dice di seguire i propri sogni, ascoltare quello che ci fa felici nel profondo,  dedicarci alle proprie passioni, e anche se magari si dovrà un po’ soffrire, verremo ripagati di tutti, perché se qualcosa andrà male, ci sarà sempre una sorpresa dietro l’angolo.

Glass Onion: A Knives Out Mystery

Il detective più famoso del mondo è tornato! Era senza dubbio difficile avere un cast all’altezza del primo Knives Out, ma Rian Johnson ce la mette tutta: Janelle Monae, Edward Norton, Dave Bautista, Kathryn Hahn e Kate Hudson compongono lo schema di sospettati in questo riuscitissimo sequel antologico.

Dopo aver risolto il caso della famiglia Thrombey, Benoit Blanc questa volta si reca in Grecia, dal ricco imprenditore Miles Bron e la sua banda di amici, i disgregatori. Il multimiliardario organizza ogni anno un weekend di festa nella sua isola privata, e quest’anno il tema è delitto: la banda deve scoprire chi è l’artefice dell’assassinio di Bron stesso, che si terrà durante la cena. Le regole sono chiare: ognuno deve investigare per conto proprio, gli indizi sono sparsi per l’isola, e una volta che Bron è “morto” non potrà più parlare con i propri amici. Tutto sembra facile, ma come mai Blanc è stato invitato, visto che Bron non gli ha inviato nessun invito? Ma soprattutto, come mai questa volta è venuta la vecchia partner d’affari di Miles, dopo che è stata tradita dagli amici? Il gioco si fa sempre più fitto di misteri, mentre noi seguiamo Blanc e i suoi stravaganti metodi investigativi.

Incredibile ma vero, Glass Onion riesce a superare il suo predecessore. È divertente, pieno di suspence e colpi scena, non annoia mai e intrattiene moltissimo, anche più del primo. Johnson si sta divertendo un sacco a riscrivere le regole degli whodunnit (i gialli in poche parole), cambiando la narrativa a seconda di quello che i personaggi e gli spettatori sanno o non sanno. Proprio come in Knives Out, Johnson è molto abile a concentrare l’attenzione dello spettatore esattamente dove vuole lui, mentre succede altro proprio sotto il suo naso. Non nego però che in questo capitolo, soprattutto nella seconda metà, arriva un po’ all’estremo, rendendo quasi impossibile per chi guarda il film svelare il mistero dietro alla storia. Ma in fondo è quasi sempre comprensibile, visto che vediamo varie scene da diversi punti di vista e che se desse determinate informazioni fin dall’inizio la trama avrebbe lo stesso problema della prima: si sa già tutto (nel primo già si sa chi è l’assassino) e il film si concentra sullo scagionare l’innocente. Qui no, la trama è semplice, una weekend di giochi tra amici, il bello è vedere come, con l’aggiunta di Blanc, tutto crolla.

Il film lo si può suddividere in due parti: la prima dal punto di vista di Blanc e la seconda dal punto di vista di altri personaggi. Viviamo due volte la stessa giornata e, con le sole informazioni che ha Blanc nella prima parte, non riusciremmo mai a capire la seconda, e viceversa. Sono due tasselli che si incastrano alla perfezione di un puzzle immenso che Johnson ha scritto magistralmente. Ogni dettaglio è piazzato con un senso e, una volta svelato il mistero, rimani lì a pensare: “ma certo come ho fatto a non vederlo!”.

Questa tecnica di dividere i punti di vista è quello che rende la trama sia interessante che altamente improbabile. Interessante perché il film è in costante evoluzione, le informazioni che hai continuano a cambiare e ad evolvere scena dopo scena. Persino Blanc lo dice: il mistero lo deve svelare strato dopo strato, fino ad arrivare al centro, proprio come la cipolla del titolo. Improbabile perché alcune informazioni e scene sono impossibili da immaginare (o almeno, per me lo erano!). Di conseguenza rimane un mistero impossibile da decifrare per lo spettatore. Proverò a darci una seconda visione per vedere se si può capire tutto nella prima parte oppure no.

Daniel Craig è sempre perfetto nei panni di questo investigatore che a prima vista sembra un tonto, ma una volta che inizia a parlare zittisce tutti in pochi secondi. L’accento è una delle cose più belle, sia in questo che nel primo film. Il cast nell’insieme è perfetto: Edward Norton praticamente interpreta sé stesso, un ricco stronzo, Dave Bautista pure, un pompato ignorante. A parte gli scherzi, il film è pure ambientato e girato durante la pandemia, e fa strano vedere una scena in cui gli attori hanno le mascherine (ma è soltanto una tranquilli). E devo dire che ha fatto un po’ male vedere Blanc giocare ad Among Us, con dei camei d’eccezione: Angela Lansbury e Stephen Sondheim.

Johnson è riuscito a prendere il succo della sua prima creazione e scrivere una storia altrettanto originale che tiene incollati allo schermo. Vincente anche l’idea di farlo antologico: infatti questo Glass Onion lo si può tranquillamente guardare senza dover recuperare Knives Out, i due non hanno nessun collegamento tranne il personaggio di Blanc. E devo dire che se dovesse diventare una saga sono pronto a diventare fan numero uno (un terzo capitolo è già in lavorazione da Netflix). Scelta altrettanto interessante quella di farlo uscire unicamente su Netflix, al contrario del primo capitolo che aveva fatto successo al cinema prima della pandemia, ma ancora il gigante dello streaming non aveva comprato i diritti. Ha fatto un uscita speciale nei cinema statunitensi durante la settimana del Ringraziamento, ma penso sia un piccolo escamotage per far entrare il film in lizza per la stagione dei premi. Infatti è già nominato nella categoria Musical/Commedia per miglior film e miglior attore (Daniel Craig).

Non penso vincerà nulla, ma rimango un grandissimo fan delle investigazioni di Benoit Blanc, attendo con ansia il prossimo mistero!

Voto: 4/5

Avatar – The Way of Water

Sono passati ben 13 anni dalla prima volta che James Cameron ci ha accompagnati su Pandora, e stavolta lo fa con il film epico più lento del mondo. Torniamo da Jakesully e sua moglie Neytiri che devono affrontare una nuova terribile minaccia: i loro figli adolescenti. Tra scelte sbagliate e ripetitive, sono inseguiti dal clone del colonnello Miles Quartich, nel corpo di un Avatar. Per sfuggirgli, si nascondono nelle isole del popolo Metkayina, un tipo di Na’vi che abitano nell’acqua.

Cominciamo con le cose positive: ovviamente, gli effetti speciali sono mozzafiato. Il realismo è ad un livello altissimo, l’interazione tra i Na’vi e l’acqua ti fa dubitare di guardare un prodotto creato al computer. Anche tutti i nuovi animali acquatici sono di un realismo impressionante, quando vedi la pelle di alcuni pesci e balene puoi definire ogni dettaglio di rughe e scaglie. Si sa che l’acqua è un elemento difficilissimo da gestire, ed è incredibile come Cameron sembra sfruttare le scene al massimo per mostrare a che livello riescono a giocarci. Per esempio, in una scena due ragazzi si picchiano proprio sulle rive di una spiaggia, tra la schiuma del mare. Si spingono in acqua, si tirano pugni e calci, e l’acqua interagisce con i personaggi in modo super realistico. Anche la luce è gestita magistralmente: il modo in cui si riflette sulla pelle bagnata di ogni personaggio dona ancora più realismo in ogni scena. Visto che tre quarti del film è ambientato in queste isole acquatiche, ci si aspettava un livello molto alto per quanto riguarda gli effetti speciali, e ci sono senza dubbio arrivati.

Ma a parte la bellezza estetica, cosa rimane di questo nuovo capitolo di Avatar? Non è così facile rispondere, visto che il contenuto del film è molto più basso rispetto alla sua innovazione tecnologica. La trama si può dividere in 3 parti abbastanza ovvie: l’introduzione, la parte centrale e il finale.

Nell’introduzione conosciamo la nuova famiglia di Jake e Neytiri, e tutto quello che hanno fatto nel corso degli anni (non sappiamo esattamente quanto tempo è passato dal primo film), e veniamo a conoscenza del clone del colonnello. Succede poi un evento catastrofico (cerco di non fare spoiler) che obbliga i nostri eroi a esiliarsi. Entriamo così nella parte centrale, che è soltanto, per un sacco di tempo, senza nulla che cambia, acqua. Jake in acqua, i figli in acqua, gli animali in acqua, i nuovi Na’vi in acqua, secondo me per almeno 2 ore o poco meno. Poi ad un tratto si arriva alla battaglia finale e basta, tutti a casa.

Dopo 13 anni di attesa ci si aspetta almeno una trama che intrattenga un minimo, ma qui ci troviamo proprio di fronte ad un documentario sulla vita acquatica di Pandora. Può essere interessante per un po’, ma ragazzi sono 3 ore e 12 minuti che passano molto molto lentamente. L’intrattenimento è compreso nella prima e nell’ultima mezz’ora, il resto della sceneggiatura può essere sintetizzato così:

  • Nuovo animale acquatico da conoscere;
  • I Na’vi acquatici sfottono i figli di Jake;
  • I figli di Jake fanno cazzate, tipo menare gli acquatici;
  • Jake si arrabbia e li obbliga a scusarsi;
  • Ripetere la lista dall’inizio

Ecco tutta la trama di questo nuovo Avatar, niente di più. Il film è completamente focalizzato sui figli di Jake, la “nuova generazione” di Pandora, che probabilmente nei prossimi film della saga (vi ricordo che sono programmati ancora 3 film, per un totale di 5) prenderanno sempre più piede. Ma i figli non hanno nessuna dimensione e non danno niente se non arrabbiatura. Cosa ancora più fastidiosa è il loro modo di parlare: “grazie bro, sei forte bro, andiamo bro, aiutami bro, non toccare mia sorella bro, lasciaci in pace bro”. Non so come sia possibile ma Jakesully ha importato il peggior linguaggio slang su un pianeta alieno, e nonostante tutto lui è l’unico a non parlare così. E, come detto in precedenza, la parte centrale dura almeno 2 ore sulle 3 totali, è quindi molto lunga e molto ripetitiva, non aggiunge niente al film, se non il fascino estetico citato prima. Insomma, non sarebbe stato malaccio aggiungerci anche una trama.

In questa parte centrale scopriamo anche il messaggio che Cameron ci vuole mandare con insistenza: LA FAMIGLIA. Esatto, Avatar – The Way of Water ha la stessa profondità di un Fast & Furious qualsiasi. Purtroppo, Jake non si vede molto, i protagonisti sono a tutti gli effetti i suoi figli, ma quando c’è Jake sullo schermo potete stare sicuri che pronuncerà la parola FAMIGLIA. All’inizio può anche andare bene, ma dopo 2 ore in cui “deve difendere la famiglia, la famiglia sta unita, non deve deludere la famiglia“, basta per favore cambia argomento.

Ancora più peccato è il “cattivo” del film, che così cattivo non è. Questo clone del colonnello non ha un vero motivo per correre dietro alla famiglia Sully, tutta la sua motivazione è un vecchio video registrato dal vero colonnello in cui gli dice: “te sei un mio clone Avatar, hai la mia memoria, ma non sai come sono morto, in ogni caso vendicami”. Ed ecco che il clone parte alla vendetta. Potevano almeno sprecarsi un po’ a creare un cattivo con un po’ di senso, o almeno un po’ diverso a quello del primo, hanno letteralmente preso lo stesso personaggio senza aggiungere niente.

Non si esce veramente delusi dalla proiezione, ma di sicuro un po’ amareggiati. Dopo 13 anni le aspettative di tutti erano di sicuro molto alte, e ritrovarsi di fronte ad un documentario di un pianeta inesistente che dura 3 ore non è proprio il massimo dell’intrattenimento. Il salto di qualità l’hanno di sicuro fatto con gli effetti speciali, speriamo che con i prossimi sequel spenderanno qualche soldo in più per migliorare la sceneggiatura.

P.S. – Sigourney Weaver interpreta una delle figlie di Jake, ma perché fare una bambina con la voce di una 70enne? Era la cosa più terrificante del film, per favore trovatele una doppiatrice.

Pinocchio

Quante volte abbiamo visto Pinocchio nella nostra vita? Probabilmente un numero incalcolabile, ma è già strano che quest’anno ne siano uscite ben due nuove versioni. La prima versione su Disney+, con Robert Zemeckis in regia e Tom Hanks nei panni di Geppetto, non è altri che il live action del Pinocchio originale, quello del 1940, uguale in tutto e per tutto. La seconda versione, stavolta su Netflix, è di Guillermo del Toro, e già quando si vociferava di questo progetto tutti erano già entusiasti. Pinocchio e del Toro sono forse le due entità più opposte che si possano immaginare, una coppia che non ha nulla in comune, eppure, è nato un capolavoro.

In questo film stop motion, del Toro ci regala molto di più della storia che noi già conosciamo: inizia con Carlo, il figlio deceduto di Geppetto. Scopriamo che la nascita di Pinocchio è frutto della depressione di un padre che non riesce ad accettare la morte del figlio, e vuole disperatamente un sostituto. Vediamo nello stesso Pinocchio la delusione di non poter essere all’altezza del figlio “originale”, e venire denigrato dal padre. E sarà questa voglia di riscattarsi che lo porta in un avventura (non so se si può veramente chiamare così) in quello che originariamente era il paese dei balocchi, ma qui non è altro che il mondo vero, fuori dalla sicurezza della propria casa.

Del Toro ci regala un film maturo, della trama originale riconosciamo lo scheletro e qualche dettaglio, ma tutto il resto è cambiato, va più a fondo e in continuità. L’ambientazione è più chiara, siamo sempre in Italia, ma ci troviamo nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Non è di sicuro facile aggiungere credibilità nella storia di un burattino vivente, ma del Toro ce l’ha fatta.

Tra le differenze più eclatanti troviamo il Conte Volpe e Spazzatura, la sua scimmia schiava. I due dovrebbero sostituire non solo il Gatto e la Volpe, ma anche il Mangiafuoco. Infatti il Conte Volpe riuscirà a raggirare Pinocchio per partecipare al suo spettacolo di burattini e a rubargli tutti i soldi facendogli credere di inviarli a Geppetto. Mischiando e unendo i personaggi originali in uno tutto nuovo non solo dona un cattivo più profondo e credibile, ma anche un nuovo improbabile alleato di Pinocchio: la scimmia Spazzatura.

Conosciamo bene del Toro e sappiamo quanto ama il soprannaturale, e ovviamente ne ha aggiunto un po’ anche qui. Scopriamo infatti che la nuova versione del burattino è immortale. Ma dal momento in cui incontra la Morte, questo dono non gli viene presentato come tale, ma piuttosto come una maledizione. Più muore, più tempo dovrà aspettare per tornarne in vita. Più tempo aspetta, più i suoi cari rischiano la morte. Avete capito che la morte è un discorso centrale, visto che lo scopo ultimo del film è l’accettazione dalla parte di Geppetto della morte del figlio Carlo, accogliendo Pinocchio nella sua famiglia.

Se pensavate di guardare un film tranquillo e leggero come l’originale, beh, vi siete sbagliati di grosso! Questo Pinocchio ha molto di più del classico Disney a cui siamo abituati, tanto di cappello a del Toro per essere riuscito in questa impresa che sembrava impossibile.

Pinocchio lo potete trovare dall’8 dicembre su Netflix.

Voto: 4/5

The Menu

Dopo Parasite e Squid Game e Triangle of Sadness abbiamo un nuovo partecipante nella gara dei film contro la differenza tra classi sociali. Non vorrei dire che The Menu è forse il più piatto in questa breve lista ma… è proprio così.

Un gruppo di 11 ricchi stravaganti (più la nostra eroina, per un totale di 12) si ritrovano nel rinomatissimo ristorante dello chef stellato Julian Slowik (un sempre grande Ralph Fiennes). Tra i vari personaggi troviamo la coppia di abitudinari, la critica culinaria, l’attore dimenticato da tutti dopo un film di successo, i giovani ricchi figli di papà e un appassionatissimo fan della cucina, accompagnato da Margot (Anya Taylor-Joy). Lo chef presenta una portata dopo l’altra, raccontandone la storia ed il significato ma, a mano a mano che i piatti vengono serviti, i clienti si rendono conto che chef Slowik ha molto altro da dire, facendo diventare la serata una lotta per la sopravvivenza.

Il concetto è molto semplice, ma anche altrettanto originale: ogni portata rappresenta l’egoismo e l’egocentrismo dei commensali, inizialmente in modo abbastanza generale, poi concentrato sui singoli personaggi, per finire con un discorso prettamente legato alla cucina, ma che ovviamente funziona anche per la “vita di tutti i giorni”. In tutto questo c’è un problema: Margot. Lei è l’unica che non ha niente a che fare nella lista degli invitati, essendo invitata all’ultimo e… spoiler – una prostituta. Lo chef chiaramente lo sa, perché gli invitati sono stati scelti con molta cautela e precisione, una piccola differenza può distruggere tutto il suo piano, ed è quello che potrebbe accadere con Margot.

Lo chef, così come nella vita vera, dice a Margot di scegliere da che parte stare: nella ciurma di Slowik o con gli insopportabili clienti? Perché lui sa che in realtà lei non centra niente con quel tipo di clienti, sa che lei non fa parte dell’alta società, bensì è giù in basso, insieme a camerieri, cuochi e chef.

Quello che spinge il rinomato chef ad organizzare questa serata è il cuore del film: per anni la sua carriera si basava sul rendere felici le persone, sulla semplicità di un pasto fatto bene e con cura. Andando avanti il tutto si è trasformato e lui non si riconosce più in quello che sta facendo, una cucina di qualità estrema, ottenibile solo dai ricchissimi dopo mesi di attesa. Persone che non apprezzano ciò che mangiano, lo fanno solo perché possono e perché migliora l’immagine andare in un ristorante di quello specifico chef. Slowik ha deciso allora di smettere, di raccogliere un esempio di ogni tipo di persona che più non rispetta la sua cucina e, finalmente, farli pagare.

Ho già detto troppo e non voglio fare spoiler inutili. Finisco quindi col dire che come film era inaspettatamente interessante, con una bella tensione e un messaggio molto forte. Quello che Slowik vuole mandare è un messaggio che tocca tutti: adesso si fanno le cose senza nemmeno pensare perché si fanno, lo solo scopo è guadagnare soldi o immagine. Tutto questo viene mandato attraverso delle portate abbastanza geniali (il pane insistente è il migliore), per poi finire un po’ nell’esagerazione (non so perché, ma i marshmallow mi hanno ricordato l’orso di Midsommar).

Rispetto al messaggio che è complesso e intricato, il film è invece leggero e diretto, il che lo rende godibile per tutti, recuperatelo al cinema se ci riuscite!

Voto: 3.5/5

Marcel the shell with the shoes on

Cosa serve per fare un bel film? Un cast formidabile? Un regista pluripremiato? Degli effetti speciali iper-realistici? Un budget esorbitante? O semplicemente una piccola conchiglia con le scarpe?

Basta una piccola, piccolissima idea per creare una storia che ti entra direttamente nel cuore. Il regista Dean Fleischer-Camp, co-protagonista del film, ci presenta il piccolo Marcel, una conchiglia con un occhio e un paio di scarpe. Dopo averlo incontrato per caso nella casa che ha affittato, Dean decide di fare un documentario con Marcel come protagonista. Il piccolo ci racconta la sua visione del mondo: abita da quando è nato in quella stessa casa con tutta la sua famiglia di conchiglie. Gran parte è però scomparsa, e lui è rimasto solo con sua nonna Connie. Dopo aver pubblicato un cortometraggio documentario con protagonista Marcel su YouTube, Dean decide di sfruttare la fama per aiutarlo a trovare il resto della sua famiglia.

I film come Marcel the shell with the shoes on sono rari, piccoli film particolari che, con la loro semplicità, ti fanno apprezzare la vita e il cinema. Vedere la vita attraverso la semplicità e l’ingenuità di Marcel scalda il cuore, tutto è nuovo e da scoprire. Lui non è solo una conchiglia, è un bambino che deve riuscire a sopravvivere facendo tutte le faccende casalinghe che prima erano destinati agli altri membri della famiglia, oltre che prendersi cura di sua nonna. Dean lo segue tutti i giorni per tutto il giorno all’interno della casa, Dean scopre la sua routine e Marcel scopre tutte le novità che lui ha portato.

Quello che più ti tocca è la semplicità di tutto, proprio per questo i film così sono sempre più rari. Il regista, anche mettendosi in campo, crea veramente un piccolo capolavoro. Le emozioni che il piccolo Marcel scaturisce nello spettatore non sono descrivibili in una recensione, vanno veramente vissute per comprenderle appieno. Se volete recuperarlo, non è così facile da trovare, ma vi lasciamo qui sotto il link per il cortometraggio da cui è nato il film. State tranquilli, appena sarà disponibile su un sito streaming vi avviseremo.

È stato giustamente nominato ai Golden Globes come miglior film d’animazione, noi ovviamente gli facciamo il tifo sperando vada anche agli Oscar!

Voto: 4.5/5

Triangle of Sadness

Sappiamo che il Festival di Zurigo è solito rubare film da molti altri festival per poi prendersi il merito, e anche in questa 18esima edizione non è da meno. Tra la lista di film già passati altrove troviamo il vincitore della Palm d’Or al Festival di Cannes di quest’anno. Il regista Robert Östlund già si conosce, dopo aver vinto Un certain regard (sempre a Cannes) con Turist, e la sua prima Palm d’Or con The Square, la sua ultima fatica gli regala la seconda palma d’oro per miglior film. E siamo veramente di fronte a uno dei migliori film dell’anno, senza ombra di dubbio.

Il film è diviso in 3 capitoli. Nel primo conosciamo quelli che crediamo saranno i protagonisti: la modella affermata e influencer Yaya e il modello nascente Carl, una coppia molto particolare. Due giovani ricchi che vogliono mettere in discussione tutto sul modo di vivere moderno, mettendosi allo “stesso livello”. Il secondo capitolo ci porta in viaggio, saliamo su una crociera di lusso insieme a Carl e Yaya e qui conosciamo tantissimi altri personaggi. La coppia di russi capitalisti che hanno fatto soldi vendendo concime, la coppia di ricchi inglesi che hanno fatto soldi vendendo armi, un ricco svedese che ha fatto soldi creando un app e qualche membro dell’equipaggio, tra cui la responsabile della crew e il capitano comunista perennemente ubriaco. Sembra l’inizio di una barzelletta, e infatti è proprio così: è solo l’inizio! Andrò più a fondo in seguito per dire cosa succede su questa crociera, intanto passiamo al terzo episodio: l’isola. La barca viene attaccata dai pirati ed esplode, e soltanto in pochi riescono a salvarsi, trovando rifugio su un’isola. Qui tutto cambia, si trova un nuovo ordine e si cerca un modo di sopravvivere, ma non è facile quando si è abituati ai camerieri che ti portano tutto…

PIENO di contenuto, è da anni che non vedo un film come questo, carico e voglioso di mandare un messaggio urlandolo così forte. Ed è ancora più affascinante pensare che ha vinto il festival di Cannes, visto che il pubblico di quel festival è esattamente quello che viene criticato in Triangle of Sadness. Infatti questa nuova opera di Ostlund è una satira contro la classe più alta della società, partendo dai figli della nuova generazione: gli influencer. Inizialmente vediamo tutto attraverso Carl e Yaya, lui in particolare è un personaggio geniale. Dipinto come l’uomo perfetto, sin dalla prima scena vediamo tutti i problemi mentali che si fa: è insicuro su tutto, con un ragionamento che non ha alcun senso vuole assicurare uguaglianza nella sua relazione con Yaya, e non appena lei mette in discussione la sua mascolinità, lui esplode con delle uscite ridicole. Carl è proprio la definizione del nuovo tipo di uomo moderno che si sta creando, non vuole mettersi tra i piedi dell’emancipazione femminile ma allo stesso tempo si sente minacciato da tutto quello che gli va contro.

Il capitolo dello yatch è una vera e propria montagna russa, impossibile da richiudere tutto in una piccola recensione. Mi concentro in particolare su una scena: la moglie ricchissima del russo ricchissimo ovviamente si sente in dovere di far capire alla crew che lei non è come gli altri super ricchi, lei è migliore e con i piedi per terra. La tipica falsa affermazione di ogni persona benestante che finge di interessarsi a quelli ai piedi della piramide, quando in realtà aspirano solo a dei meri complimenti, visto che l’equipaggio è sempre obbligato a dire si ad ogni loro richiesta. Infatti, lei dice all’equipaggio che devono rilassarsi, e fare un tuffo in mare. Così fanno tutti, compresi i cuochi che lasciano il pesce all’aperto in cucina… il che creerà delle spiacevoli conseguenze, che vi faccio scoprire guardando il film.

L’isola è tutta una storia in sé. L’ordine della gerarchia viene rapidamente sconvolto, senza che lo spettatore se ne rende veramente conto visto che ride ogni minuto che passa. Abigail, una delle donne delle pulizia che erano sullo yatch, diventa la capa indiscussa dell’isola, essendo la sola ad essere capace di cacciare e cucinare. Tutti gli altri ricconi, beh, devono stare alle sue regole.

È incredibile come questo film ti sbatte in faccia discorsi molto seri e tabù con estrema semplicità ed ironia, senza nemmeno che lo spettatore se ne accorga perché sta ridendo troppo. Insomma, stavo ridendo come un matto quando l’ho visto, per poi fermarmi e pensare: “aspetta, l’ha veramente fatto?!”. Ostlund si rivela, ancora una volta, un genio, e ci regala uno dei film più belli del 2022.

The Whale

Dopo 5 anni dai fischi di mother! (film che noi abbiamo amato), Darren Aronofsky torna in Concorso alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Insieme a lui, un altro grandissimo ritorno, quello dell’attore che ha formato la nostra infanzia e adolescenza: Brendan Fraser. Lui, insieme a Hong Chau (Homecoming) e Sadie Sink (Stranger Things), porta quello che per noi Hateful è uno dei film più forti di questa edizione della Mostra, e di sicuro quello che ci ricorderemo di più.

Charlie (Fraser) è un insegnante di inglese in una scuola online. È solo, cerca di tirare fuori il massimo dai suoi allievi e non ha altri stimoli se non quello di leggere le tesine che gli vengono inviate. Ah si, Charlie pesa 266 chili. Anche la cosa più semplice per lui è molto complessa: farsi la doccia, andare a letto, o persino alzarsi dal divano. Per questo ha Liz (Hong Chau), la sua infermiera e grande amica, l’unica persona che le dice come stanno veramente le cose, cioè: se non va all’ospedale, gli rimarranno solo pochi giorni di vita. Charlie decide di fare di testa sua e provare ad avvicinarsi a Ellie (Sadie Sink), sua figlia che ha abbandonato alla madre quando aveva 8 anni per vivere una storia d’amore con un suo allievo.

Come al solito, Aronofsky ci presenta un film molto duro e crudo. Ogni scelta presa da Charlie fa male e fa arrabbiare, il peggio è che in fondo in fondo capisci pure perché prende determinate scelte nonostante si stia autodistruggendo. Prendere Brendan Fraser è stata un’idea geniale, non solo perché dà un interpretazione magistrale, ma anche perché lui, proprio come Charlie, ha un cuore puro. Lo spettatore vede entrambi, e prova affetto per entrambi: sia per Charlie che si rovina la vita, sia per Fraser che sta tornando nei grandi film Hollywoodiani.

La pugnalata più grande che il film infligge è di sicuro la relazione malsana che Charlie ha con la figlia. Ellie non è una ragazzina di 16 anni, si avvicina di più ad una principessa dell’Inferno venuta direttamente dal girone più vicino a Satana. Non sa cos’è la compassione, il rispetto o la più semplice gentilezza. È l’esatto opposto di Charlie, e lui è disposto a subire tutto pur di passare qualche minuto con lei. Sotto sotto lui spera di riuscire ad insegnarle qualcosa, ben sapendo di non aver tempo a sufficienza. Ed è proprio il fatto che lei se ne frega altamente che fa ancora più male (nonostante tutto quello che Charlie ha fatto passare alla sua famiglia).

È un personaggio molto complesso quello di Charlie: ridotto così dopo la prematura morte dell’amante. Lo stesso amante con cui è scappato lasciando moglie e figlia da sole. È proprio questa scomparsa che lo fa affondare nella depressione e nel cibo. Il resto, lo vediamo nel film. La sua gentilezza si trasforma in sottomissione, verso ogni persona. Ricorda molto uno dei personaggi protagonisti della trilogia del cuore d’oro di Lars Von Trier. Se si pensa a Dancer in the Dark o Breaking the waves, i protagonisti hanno un cuore talmente puro da non rendersi conto di autodistruggersi, esattamente come succede a Charlie.

Aronofsky sceglie il formato in 3:4 che, per quanto non mi piaccia, è molto azzeccato. Il film è ambientato unicamente nell’appartamento di Charlie, il formato mostra il personaggio ancora più enorme di quanto lo è veramente. Chiuso in una scatola che non riesce nemmeno a contenerlo, deve vivere e muoversi da un punto all’altro. Vediamo la fatica e il disagio della sua vita, e raramente diamo un occhiata fuori dalla finestra. Anche l’azione quotidiana più semplice ci viene mostrata in modo tale da farci capire la difficoltà che ha Charlie nel metterla in atto.

Ovviamente, The Whale, ha un altro significato, non solo l’enormità del personaggio protagonista. Ma su questo ho deciso di non scrivere niente e di farvelo scoprire al cinema (mi raccomando non piangere troppo).

Siamo abituati bene da Aronofsky e, nonostante qualche inciampo (ehm ehm Noah), anche questa volta ha fatto centro. Purtroppo Brendan Fraser non si è preso la Coppa Volpi per la migliore interpretazione. Ma non disperiamo: aspettiamo gli Oscar.