Reality

105 minuti di interrogatorio, lineari, non romanzati, non arricchiti di particolari, solo la messa in scena nuda e cruda della registrazione audio effettuata dall’FBI il 3 giugno 2017 in una piccola casa della Georgia.

Reality torna a casa in auto, parcheggia e non ha il tempo di uscire dall’abitacolo che due uomini bussano al suo finestrino e le si presentano come due ufficiali del Federal Bureau con un mandato di perquisizione per casa sua.

Tutti rimangono molto tranquilli e la registrazione audio procede, con la trascrizione addirittura del cane quando abbaia, dei colpi di tosse, delle risatine tra i due colleghi che conducono l’interrogatorio e così via.

Reality è accusata di “rimozione di materiale classificato da una struttura governativa e invio a un organo di stampa”, è riuscita a trafugare dei documenti top secret riguardo lo spionaggio da parte dei russi verso gli Stati Uniti durante le elezioni di Trump nel 2016.
L’FBI riesce a rintracciarla e la arresta alla fine dell’interrogatorio effettuato nella sua casa in Georgia.

Potremmo guadare questo film in due modi, sotto due chiavi di lettura differenti:

Da una parte, si potrebbe criticare dicendo che è come una puntata di un qualsiasi programma di RealTime, dove si ricrea tutta una scena, semplicemente che con un budget maggiore.

Dall’altra parte, quando un film è biografico e non si attiene alla realtà al 100%, ci si lamenta perché non è fedele ai fatti realmente accaduti… quindi o in un modo o nell’altro fondamentalmente non ci va bene nulla… e quindi trovo che questo film, anche se “solamente” una messa in scena, è davvero fatto bene e racconta la storia complessa del mondo dei Wistleblower di tutto il mondo.

L’interpretazione di Sydney Sweeney (nel ruolo di Reality Winner) è davvero notevole, lei che fino a questo film aveva lavorato per la maggior parte per prodotti televisivi (Euphoria, The Handmaid’s Tale, …), in questo film struttrato quasi unicamente da monologhi ai quali bisogna attenersi parola per parola senza poter improvvisare nulla, se la cava davvero bene.

Nel 2019 la regista Tina Satter, mette in scena “Is this a room”, uno spettacolo teatrale della trascrizione dell’interrogatorio, 4 anno più tardi arriva alla Berlinale nella sezione “Panorama”.

Quindi per concludere, “Reality” è un film lineare, teatrale e senza la pretesa di giudicare.
Il film ci presenta senza giudizio una storia che saremo noi a giudicare, saremo noi a capire e a prendere le parti.  

Il potere delle decisioni politiche, la quantità di informazioni top secret che non potremo mai sapere e le tecniche di dissuasione che l’FBI utilizza durante i suoi interrogatori, tanti elementi che ci vengono presentati semplicemnte rimettendo in scena una registrazione audio vera di un’ora e mezza.

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She Came to Me

Non conoscevo Rebecca Miller e non ho scelto di guardare il film perché estremamente interessato alla trama, ho riservato il mio posto in sala perché sto pochi giorni a Berlino e quindi voglio guardare tutto quello che posso, ma uscito dalla proiezione posso dire che sono contento di aver preso il biglietto, perché “She Came to Me” mi è piaciuto!

Siamo a New York e il compositore di opere liriche Steven (Peter Dinklage) ha un “blocco dello scrittore”. Durante una sua passeggiata in giro per Brooklyn incontra per caso una donna che lavora come capitano su una vecchia nave, e dopo una notte di passione ritrova l’ispirazione per la sua prossima opera lirica.

Intanto il figlio di sua moglie (Anne Hathaway) inizia a frequentare una ragazza di 16 anni. Le famiglie nel corso del film si intrecciano e sarà difficile per ogni personaggio riuscire a liberarsi dall’ingroviglio che si è creato.

Il film racconta una storia semi-realistica, non ci racconta il caos di New York, ma quanto posano essere caotiche delle famiglie insospettabili dell’alta borghesia americana.

Trovo super interessante la rappresentazione, se vogliamo stravolta, degli adulti e dei ragazzi.
Steven, l’adulto, si fa guidare dal suo cane per trovare la musa che “guarirà” la sua creatività compositiva. Sua moglie, psicologa, avrà un momento di fobia sui kreplach (una spece di raviolo della cucina tradizionale ebraica).

Sono i ragazzi invece in questo film ad avere la “testa sulle spalle”, loro che non vedono un problema nella loro relazione, loro che sono convinti di volersi sposare, di intraprendere una vita insieme per vivere bene. Gli adulti qui sono ragazzi, con le loro crisi e con i loro scatti impulsivi senza senso visti dall’esterno.

Davvero un bel film d’apertura che apre questa 73esima edizione davvero bene (speriamo i film continueranno ad essere interessanti).

TÁR

Non è ancora uscito in tutte le sale, ma dobbiamo parlarvene ora perché è uno dei 5 film drammatici dell’edizione Golden Globe 2023, insieme ad Avatar, Elvis (?), The Fabelmans e Top Gun.

Tár di Todd Field, 158 minuti, è un film autoriale e complesso, che ho dovuto riguardare per scrivere la recensione.

Nel vortice di Venezia79, alle 8 di mattina su una sedia scricchiolante del Palabiennale, un film del genere è stato solamente fonte di noia e di necessita di uscire a metà per poter andare a bere un caffè e fare colazione.

A suo tempo aveva ricevuto solamente 2 stelle, ora, alla seconda visione, il mio parere non è cambiato.

L’opera è un elogio a Cate Blanchett (che vince a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile), Todd Field decide di scrivere un film fatto a misura dell’attrice, e lei si trasforma e diventa per oltre due ore e mezza Lidia Tar, una direttrice d’orchestra, genio della musica, molto ricca, molto potente, molto brava, borghese e super acculturata.

Il film inizia con una lunga intervista a Lidia, quasi fosse un documentario, la seguiamo per oltre 20 minuti sul palco di una grande sala con il pubblico, a tenere quasi una masterclass intervistata da un giornalista di un rinomato giornale americano, Lidia dovrà dirigere la 5° sinfonia di Mahler, a Berlino.

Tutta la prima parte del film tiene la struttura quasi di un documentario, scene molto lunghe, molti “monologhi” della protagonista per conoscerne anche la sua vita privata.

Da metà in poi il film si trasforma, iniziamo a capire la vita contorta di Lidia, tra la sua relazione con la compagna, con la figlia, con il pubblico, i suoi musicisti, cerchiamo di essere parte della sua storia ma ne rimarremo sempre fuori (io perlomeno).

Neanche riguardando il film una seconda volta con calma in casa mia, sono riuscito a farmi piacere questo film, per me rimarrà per sempre un film-elogio a Cate Blanchett (bravissima, incredibile, wow).

The Fabelmans

Ormai lo so, per me guardare un film senza lasciarmi trasportare dalle emozioni, e riuscire ad analizzarlo e scriverne in modo oggettivo senza attaccarmi emotivamente, è completamente impossibile. Cercherò di parlarne senza farmi tonare il magone in gola e la voglia di piangere ripensando a tutto quello che questo film ha smosso dentro di me senza neanche me ne accorgessi.

Spielberg, al 34esimo film e pochi giorni dopo il suo 76esimo compleanno, ci trasporta nuovamente nel suo mondo, sempre più in profondità, sempre più nella sua vita personale.

Una spiegazione individuale di quello che è per lui il cinema, di quello che è la famiglia e di tutto quello che ogni giorno sono gli ostacoli della vita verso le propie passioni e i propri sogni.

Il film si apre con la prima esperienza cinematografica del piccolo Sammy Fabelmans, figlio di un ingegnere provetto e una madre artista. Questa divisione famigliare sarà presente nella crescita del ragazzo, che già dall’inizio della sua “carriera cinematografica”, inizierà a creare cortometraggi unendo l’immensa quantità d’inventiva tramandatagli dalla madre e l’ingegnosità tecnica dal padre, per risolvere problemi cinematografici pratici come quello di dare l’impressione che le pistole di ragazzini cowboy in una delle sue prime pellicole, sparino davvero.

“I film sono sogni che non dimenticherai mai” gli sussurra la madre prima di entrare nella sala cinematografica dalla quale nascerà tutta la storia del ragazzo.

Un incidente sullo schermo rimarrà scalfitto nella memoria di Sammy, che tornato a casa cercherà di riprodurre l’incidente con i suoi giocattoli filmandoli e rendendo cosi l’incidente, riproducibile tutte le volte che vorrà “fino a che avrà affrontato la paura di quella scena”.

La storia diventa anche una crescita forzata di adattamento dei ragazzi, che, dovendo seguire il padre nei suoi cambi di lavoro, si spostano da uno stato all’altro dell’America degli anni ’60-’70. Sammy continuerà a seguire la sua passione, realizzando piccoli cortometraggi e un filmato rappresentativo della gita di fine anno della sua nuova scuola. Con una cinepresa prestatagli dal padre della sua ragazza, Sammy filma tutti i giochi fatti sulla spiaggia, e rappresenta in maniera eroica quel ragazzo che qualche settimana prima l’aveva bullizzato davanti a tutti i suoi amici.

Quelle immagini proiettate sullo schermo davanti tutti alla festa di fine anno, dimostrano il potere del cinema e quello che delle “semplici” immagini possono produrre.

Gli ultimi momenti del film poi, sono una vera lezione che Spielberg decide di mettere in atto: tutto quello che conta nel cinema non è necessariamente quello che si racconta, ma il come lo si decide di fare. Il cinema è il punto di vista dell’artista che rende unica una situazione.

In questo incredibile film, Spielberg riesce a raccontare sé stesso, i suoi sogni, una sua autobiografia di quello che ha imparato nei suoi molteplici anni nell’industria cinematografica.

Quasi in un linguaggio fiabesco, Spielberg ci dice di seguire i propri sogni, ascoltare quello che ci fa felici nel profondo,  dedicarci alle proprie passioni, e anche se magari si dovrà un po’ soffrire, verremo ripagati di tutti, perché se qualcosa andrà male, ci sarà sempre una sorpresa dietro l’angolo.

Drive My Car (Doraibu mai kā)

Ero a Cannes, era Luglio e c’erano tantissimi film da vedere. Ariele era carico per questo film tratto dal libro dallo stesso titolo di Murakami, io non tanto. Entrai comunque alla proiezione, sapendo che se non mi avesse convinto, sarei potuto uscire dopo un’ora e andare a vedere “Flag Day” di Sean Penn.

Dopo i primi 45 minuti ho salutato Ariele e sono uscito dalla sala… 8 mesi dopo quella prima proiezione ho ripreso il film e sono arrivato fino alla fine, il mio parere sul film però non è cambiato, sarà forse il ritmo del film, la tipologia o la mia poca comprensione del giapponese, però il film mi è sembrato durasse mezza giornata.

Allora ho deciso, che non farò la recensione di tutto il film, ma farò finta che duri sono 45 minuti, i primi 45, un bel medio-metraggio giapponese.

Il film inizia con una donna che “recita” un dialogo apparentemente di un romanzo, il marito, che è nel letto con lei le risponde, la lettura del romanzo va avanti e seguiamo i due personaggi fare avanti e indietro dall’aeroporto, prima lei, poi lui, ma la seconda volta lui non decolla e torna a casa. Girata la chiave sentiamo dei gemiti, alcuni vestiti per terra, un assolo di pianoforte di Mozart e la moglie sul divano avvinghiata ad un altro uomo. Il marito esce di soppiatto di casa.

Nei giorni successivi il marito fa finta di niente, ci aspettiamo che ad un certo punto le dica qualcosa… e invece niente…

Pensiamo ci sia crisi nella coppia, che i due non vadano più d’accordo, e invece no, la sera successiva passano una notte passionale, in cui la moglie, durante l’atto, continua a raccontare la storia di una ragazza che, ossessionata da un ragazzo, si intrufola in camera sua e nasconde ogni volta qualcosa nei suoi cassetti.

Il processo di scrittura delle storie della moglie, verrà descritto molto piu avanti nel film dal marito cosi:

“Alla fine divenne un’abitudine. Il sesso è le sue storie erano strettamente collegate, anche se sembrava non esserci un nesso. Alcune volte, cominciava una storia (la moglie) quando era al culmine del piacere, e la portava avanti, era questo il suo modo di scrivere”

Beh che dire, dopo questa introduzione, una normalissima sera il marito torna a casa e trova la moglie sul divano, morta.

Da qui inizia il film, ma i primi 45 minuti sono finiti e quindi vi toccherà guardavi le altre 2 ore e 10 di film rimanenti per scoprire cosa succede…

Buona visione e buona fortuna!

The Rescue

Che film, che cinema, che storia!

“Rimarrò con gli occhi gonfi dal pianto per una settimana credo! Che bella cosa che sono gli esseri umani, che forza che hanno quando si mettono insieme e uniscono le forze per una ragione comune”. Scrivo così in un messaggio whatsapp durante lo scorrimento dei titoli di coda, con in sottofondo Belive di Aloe Blacc (che continuo ad ascoltare in loop e ogni volta mi viene voglia di piangere).

Lo so, non si dovrebbe recensire un film inserendo la propria opinione, bisonerebbe rimanere oggettivi, guardare il film per quello che è, e starne fuori … ma io non ci riesco, se un film scatena cosi tante emozioni in me, è un film riuscito, punto.

Cominciamo dal fatto di cronaca: estate 2018, Thailandia. Un gruppo di giovani calciatori, tra gli 11 e i 16-17 anni (si uno dei ragazzi ha “festeggiato” il suo compleanno rinchiuso nella caverna), si ritrovano intrappolati in una caverna dato che le forti piogge quell’anno arrivarono prima del previsto. La caverna lunga diversi chilometri non è ancora stata chiusa al pubblico e viene inondata dalle acque impetuose che la riempiono ad una velocità impressionante.
Viene lanciato l’allarme e Royal Thai Navy SEALs e forze speciali americane cercando di trovare i ragazzi, con la speranza di trovarli ancora in vita.
Passano i giorni, nessuna buona notizia, i ragazzi non si trovano. È qui che entrano in azione Rick Stanton e John Volanthen, due speleologi britannici che, appresa la notizia, si dirigono volontari in Thailandia. Grazie al loro aiuto, dopo 9 giorni dalla scomparsa, i ragazzi vengono ritrovati. Sono a 2 km dall’entrata della caverna, e non c’é nessun modo per estrarli vivi. Mancano 4 mesi prima che il monsone passi, l’ossigeno all’interno della caverna è al limiti della sopravvivenza, e va trovata una solutione, repidamente.
Nel cercare una soluzione, Saman Kunan, Navy SEAL thailandese, muore in un canale, ed è qui che la missone di portare i ragazzi in salvo sembra quasi impossibile… poi un’idea che pare a tutti assolutamente impossibile, pericolosa e impraticabile: sedare tutti i bambini uno dopo l’altro e trasportarli attraverso i 2 km di canale sottacqua, privi di coscienza.

Trovo incredibile come questo documentario ci lasci trasportare nella storia e ci faccia tirare un sospiro di solievo quando finalmente i ragazzi vengono trovati… ma il peggio deve ancora arrivare, trovarli vivi era la parte più semplice.
Un ansia e una tensione costante incredibile, continuiamo a chiederci anche noi come spettatori quale dovrebbe essere la prossima mossa, non crediamo la soluzione proposta sia quella giusta, e trovo sia quella la chiave incredibile della vicenda e del documentario. Nessuno ci credeva, neanche chi l’aveva pensata, era talmente assurda, talmente improponibile, che nessuno ci aveva creduto fino alla fine, era l’unica via d’uscita, era giusto tentare, ma sempre con quella paura di fondo.

Un documentario che lascia parlare le immagini, fa parlare gli autori del salvataggio, le migliaia di persone che si sono radunate insieme, per salvare quei 12 ragazzi che erano dati per morti, cosi piccoli e cosi insalvabili.
I registi, Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin, avevano vinto l’Oscar come Miglior Documentario nel 2019 con il film “Free Solo” e probabilmente saranno messi in lizza agli Academy Award 2022 con questo altro capolavoro!

Il documetnario lo potete trovare da meno di un mese su Disney+, 1 ora 1 47 minuti di tensione e magia.

P.S. PICCOLO TRIVIA
Di questa vicenda se ne è parlato tanto e ne é stato fatto un film qualche anno fa, ma la cosa interesante è che nel film non vedremo mai intervistati i ragazzi superstiti, perchè Netflix acquisitò i diritti sulle esperienze della squadra di calcio, impedendo loro di raccontare la loro storia nel film, chissà che magari tra qualche anno vedremo un documentario anche di netflix sui fatti di quell’estate thailandese del 2018?

Belfast

Tante cartoline di Belfast a colori nel 2021 sulle note blues di Van Morrison (“Down to Joy”, nominata nella categoria “Best song” – Link alla fine della recensione ASCOLTATELA), poi attraversiamo un muro e tutto d’un tratto siamo dall’altra parte. Un piano sequenza spegne i colori e ci immerge nelle strade della città nordirlandese il 15 agosto 1969.
Dall’alto vediamo bambini giocare felici in strada, gente che rientra a casa dal lavoro e macchine che sfrecciano schivando i bambini.

Poi tutto d’un tratto un gruppo di ragazzi mascherati irrompe nelle strade, montaggio serrato e tante urla. Finestre distrutte e molotov contro le auto.
Sono passati 8 minuti del film e siamo completamente immersi nella storia, da qui in avanti … poesia.

Belfast è il film con più nomination a questi Golden Globe 2022, ben 7, tutte molto meritate!

Un film che fa emozionare; il regista, Kenneth Branagh (regista di molteplici lungometraggio come “Assassinio sull’Orient Express” e attore nel personaggio di Gilderoy Allock in “Harry Potter e la camera dei segreti”) ci apre le porte della sua vita e ci racconta di se.
Ci racconta la storia semi-autobiografica di un bambino che, ancora molto piccolo, viene catapultato in un mondo complicato e violento che lo travolge senza lascargli spazio per vivere il primo amore infantile o godersi il tempo con il padre.

La Belfast in bianco e nero che viene rappresentata nel film, se pur con una tanta violenza, ci lascia sognare. Questo grazie ai piani profondi e tridimensionali davvero mozzafiato di Haris Zambarloukos (alcuni frame di seguito).

Una tipologia di film che ci lascia respirare tutto quel cinema di cui abbiamo bisogno ogni tanto. Una storia non troppo complessa, non troppi conflitti, solo una famiglia; il suo rapporto con il mondo esterno, le sue problematiche interne, le sue debolezze, i suoi momenti di felicità e la morte.

CODA

Vorresti che fossi sorda?

Quando sei nata, all’ospedale, ti hanno fatto lo screening audiologico. Te ne stavi li con il tuo dolce faccino, mentre ti attaccavano elettrodi dappertutto. Io … pregavo che fossi sorda.

Dialogo tratto dal film

Buon inizio direi… anche se in realtà non è l’inizio del film, ma da questa frase possiamo iniziare a parlare di questo film, che per qualche strana ragione (ancora sconosciuta), è nominato a ben due Golden Globe: “Miglior Film Drammatico” e “Miglior attore non protagonista” per Troy Kotsur (il padre).

Siamo in America in una cittadina di pescatori, tutta la famiglia di Ruby è sordomuta tranne lei, la protagonista del nostro film (“nostro film” solo perchè è nominato ai Golden, sennò non mi sarei mai sforzato di guardarlo).


Iniziamo a conoscere la famiglia:
Ruby si sveglia alle 3 di mattina, seguiamo lei e la sua famiglia in mare per una mattinata di pesca, poi andiamo a scuola con lei che si addormenta sul banco, puzza di pesce, viene bullizzata sia dai compagni che dall’insegnante di coro (che in realtà insulta tutti in generale).
Ruby torna a casa e piange.

Beh, direte voi, storia avvincente. No infatti … e la cosa magica è che la storia non evolve per nulla durante tutti gli interminabili 111 minuti (devo ammettere che gli ultimi 15 minuti li ho guardati a 1.5 di velocità perché non ce la facevo più).

Questo sarebbe davvero un film perfetto per Disney Channel:
Abbiamo la ragazzina bullizzata a scuola, che avrà una storiella d’amore con il figo della scuola, la ragazza ha il sogno di cantare che però non può inseguire perché deve lavorare nella ditta di famiglia, avremo il conflitto in famiglia, poi il conflitto con l’insegnante, e alla fine (spoiler) tutti diventano gentili e la fanno partire per il suo sogno e viene ammessa alla scuola di canto migliore d’America.

Davvero non saprei cosa dire di questo film, trattare una tematica cosi profonda, in maniera cosi superficiale è davvero un peccato. Un film che aveva lasciato a bocca aperta parlando della stessa complessa realtà, era Sound of Metal di Darius Marder. Quello si che era un film che ti faceva immergere, che ti faceva soffrire, che ti sbatteva davvero in faccia la realtà cruda dell’essere sordi.

Tornando al film con 2 nomination di quest’anno, vorrei concludere con un altra citazione, o meglio descrizione di una scena, scena finale che da una boccata d’aria al tutto.
I due fidanzatini sono sulla scogliera dove si sono dati il primo bacio, si salutano li per l’ultima volta prima che la ragazza parta per Boston. Lei gli chiede “Verrai a Boston a trovarmi?” e lui “Non lo so … Forse scapperai via con un violoncellista che porta il borsalino” e lei di rimando “si, probabilmente”. Si baciano e si tuffano. Fine della scena. WOW, e ancora una volta rimango affascinato dalla poesia di questo film.

Dogman

Da dove si inizia a parlare di un film come Dogman? Qual è la strada più giusta per analizzarlo?

Tanta violenza cruda e realistica, una narrazione lineare tra il brutto e il bello, tra il giusto e lo sbagliato. Possiamo partire da una frase di Pasolini che diceva: “Finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui”. Questo film ci racconta esattamente questo. Garrone disegna un mondo brutto, lasciato andare, racconta una realtà e lo fa in modo veritiero. Uno sguardo pasoliniano della società, una realtà cruda e violenta tratta dall’omicidio del “Canaro”, evento di cronaca nera avvenuto a Roma negli anni Ottanta.

Veniamo catapultati in una cittadina omertosa, semi abbandonata e semi distrutta, dove sembra che la giustizia non esista e ormai si vive sotto la legge del più forte. L’unico spiraglio di bellezza arriva da Marcello, un piccolo uomo che invoca sottovoce il suo popolo, che ormai ha perso la speranza e la fiducia nella figura umana.
Marcello si rivolge alla figlia, ai suoi cani, agli amici, con un dolce e timido « amore », pronunciato sempre con un grande sorriso. Un sorriso che nel contesto crea subito contrasto, che cerca di riaccendere in noi la speranza nell’essere umano, che prova a farci giustificare le sue azioni irrazionali.

Per tutto il film ruotiamo intorno ai personaggi in maniera precisa e ben studiata, non solo dal punto di vista metaforico, ma anche dal punto di vista della messa in scena. Lunghi piani sequenza ci accompagnano da un interno ad un esterno, da un’azione all’altra, dalla morte alla rinascita (mi riferisco al piano sequenza del cane congelato che viene tirato fuori dal frigo, adagiato nel lavandino, riscaldato e accompagnato a camminare di nuovo). Questi piani sequenza hanno una funzione ben definita: raccontarci parte di una scena e portarla a termine. Infatti possiamo notare che ogni piano sequenza termina con la fine di una scena, un’idea matematica che Garrone non tradisce per tutto il film. Una piccolezza che durante tutto il film mi ha tenuto saldamente concentrato, facendomi muovere tra i personaggi e preparandomi al duro finale.

102 minuti durante i quali matura una cattiveria estrema, minuti interminabili e sospesi, in cui continuiamo a sperare in una rivolta, in un cambiamento. Sentiamo la pressione su Marcello, motiviamo le sue azioni, cerchiamo di scagionarlo dal suo atto vendicativo, per poi accorgerci che, oltre ad essere il suo sfogo finale, è un modo per farsi notare dagli altri, per diventare anche lui “un vero uomo”. Un tentativo che però risulta funzionare solo nella mente di Marcello. La sua azione lo porterà solo ad aver commesso un crimine non giustificabile, passando così dalla parte del torto e diventando anche lui un “cattivo tra i cattivi”.

BlacKkKlansman

“Io odio i neri. Odio gli ebrei. I messicani e gli irlandesi. Gli italiani e i cinesi. Ma soprattutto odio a morte quei vermi neri, lo giuro su Dio. E chiunque altro non abbia puro sangue bianco ariano che gli scorre nelle vene. Dio benedica l’America bianca!”

Queste sono le parole che Ron Stallworth, primo agente di polizia afroamericano del Dipartimento di Polizia di Colorado Spring, afferma al telefono parlando con il responsabile del Ku Klux Klan della zona. Una telefonata che lo farà infiltrare nel gruppo degli “ariani del White Power”, pur facendo parte del gruppo etnico perseguito dal clan.

Un raffinato poliziesco portato quasi a un livello comico, un umorismo che Spike Lee riesce ad inserire senza “infangare” la tematica profonda del film.

Il film riesce a generare una potente riflessione contro il razzismo, mettendo allo stesso livello i due movimenti: il white power e il black power. Un esempio di questo “mettere tutto allo stesso livello” lo troviamo durante gli incontri segreti dei due movimenti: il regista utilizza un montaggio parallelo molto serrato, arrivando così a rendere le due riunioni apparentemente “razziste” verso l’etnia opposta.

Il film si conclude con una transizione dalla fiction alla realtà molto cruda e gelida. Passiamo dagli anni Settanta all’attacco risalente al 12 agosto 2017 a Charlottesville. Vediamo le immagini così come sono state documentate dai passanti e riviviamo quel tragico giorno ammutoliti. Quello che sullo schermo era un film si tramuta duramente nella realtà, una realtà che abbiamo letto tutti sui giornali, ascoltato alla radio, vissuto durante i telegiornali.

In un’intervista inerente al film, Spike Lee dice: “Il cinema per me è un mezzo per far partire un dibattito. Se la gente si alza dalla sala e parla di quello che ha visto, e pensa, e discute, beh allora io come regista sento di aver raggiunto il mio obiettivo” (mymovies.it, ottobre 2018)

E direi che ci è riuscito pienamente. Blackkklansman è un film che fa discutere e che arriva assolutamente nel momento giusto. Le ingiustizie raziali le sentiamo ancora oggi, e questo film ci sbatte in faccia la realtà degli anni ’70, e in contemporanea la problematica dei giorni nostri.

Isle Of Dogs

La saturazione canina ha raggiunto proporzioni epidemiche. Un focolaio di febbre canina squarcia la città di Megasaki. Gli animali infetti, vermi, zecche e pidocchi infestano la città. L’influenza canina minaccia di attraversare la soglia della specie e di entrare nel bacino delle malattie umane.

Wes Anderson (prime parole tratte dal film)

In un futuro distopico, i cani portano con loro una malattia che presto diverrà trasmissibile anche all’uomo. Per debellare questa apparente epidemia, il sindaco Kobayashi decide di relegare tutti i cani sull’isola dei rifiuti poco fuori dalla città.

Centinaia di migliaia di cani abbandonati sull’Isola dei Rifiuti e un bambino rivoluzionario contro lo zio adottivo più potente del Giappone. Questa la prima divisione che dà il via alla nostra storia.

Una storia che Wes Anderson decide di portare con la tecnica dello stop-motion, già utilizzata in precedenza (Fantastic Mr. Fox, 2009) e decisamente vincente per la perfezione del suo stile.

Il cinema di Wes, sin dalle prime opere, tende alla perfezione, alla simmetria, ai primi piani dettagliatissimi e alle scenografie super curate. Questo film raggiunge questo obbiettivo nel migliore dei modi: quei movimenti di camera improvvisi a zoomare sull’azione, quelle soggettive sforzate per accentuare uno sguardo, quell’ironia delicata che si adagia nella storia senza distogliere la concentrazione dalla profonda drammaticità.

Per la seconda volta in un film di Anderson sentiamo gli animali parlare, ma non ci sentiamo estraniati da questa scelta, quasi ci venisse normare ascoltare un cane che si lamenta del suo stile di vita o un gufo che porta le notizie dalla città. È proprio questa leggerezza che ci tiene incollati alla storia senza destabilizzarci e senza farci notare che in effetti nella nostra realtà gli animali non sono comprensibili.

Wes Anderson inserisce anche qui, come in gran parte dei suoi film, delle piccole frecciatine politiche che si intrecciano nella storia. Per esempio il Pulsante Rosso del sindaco Kobayashi che farebbe morire l’intera razza canina sull’isola dei rifiuti. Quel pulsante rosso che già noi tutti conosciamo, quello che da un momento Donald Trump potrebbe schiacciare e scatenare così un conflitto mondiale senza precedenti.

Oltre agli inserti politici, Wes Anderson ci tiene a inserire anche qualche nota filosofica ad arricchire la sceneggiatura. Questo road-movie di maturazione, di cambiamento, di ricerca, infatti, ci pone, discretamente, davanti a domande esistenziali. Mi viene in mente la frase “Chi siamo noi, e chi vogliamo essere” che si presenta in mezzo al film. Una domanda che tutti noi, prima o poi, ci siamo posti. Anderson ce la presenta cercando di fare rispondere le sue marionette, ma siamo in realtà poi noi che ci rifaremo la domanda, siamo noi quelli che dovranno rispondere, i veri interlocutori di queste domande.

Isola dei cani è altro film che si va a collocare nella lista di produzioni perfette di Wes Anderson, un altro stop-motion che si rivela essere, ancora una volta, la tecnica azzeccata per la sua tipologia di messa in scena.

Una storia di amicizia, di fiducia e grande coraggio intrecciata alla nostra quotidianità, ai problemi di una società prossima del nostro mondo moderno. Una storia insomma, a tutti gli effetti, di WES ANDERSON.

The Shape of Water

“Se dovessi raccontarlo, se davvero lo facessi, da dove dovrei iniziare? Mi chiedo … dovrei dirvi quando è successo? A quanto pare è successo molto tempo fa, negli ultimi giorni di regno di un nobile principe. O dovrei dirvi dove è successo? Una piccola città vicino alla costa, ma lontana da tutto il resto. Oppure non lo so … dovrei parlarvi di lei? La principessa senza voce. O forse dovrei solo avvisarvi della veridicità di questi eventi. Una storia di amore e di perdita, e di un mostro che cercò di distruggere tutto.”

dal film

Sono queste le fiabesche parole che aprono il nuovo film del regista visionario Guillermo Del Toro.  Candidato all’Oscar con ben tredici nomination, il film inizia la sua popolarità dalla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia vincendo il Leone d’Oro come miglior film in concorso.
La storia sulla carta sembra quasi ridicola, troppo fantasiosa e surreale, ma già dalle prime inquadrature dobbiamo ricrederci.
La fluidità di camera nei movimenti di ripresa ci fa muovere sinuosamente tra la routine di Elisa e la ridicola immagine di una donna delle pulizie muta che si innamora di un mostro dell’acqua sparisce in fretta.

La creatura con cui Elisa riesce a parlare, con cui riesce a esprimersi e a essere felice, è prigioniera delle catene dello stabile per cui lei lavora. Sarà quindi proprio questa “semplice” e innocua donna delle pulizie a far evadere il mostro dell’acqua. Con l’aiuto di un suo grande amico e della collega Zelda, lo accoglie nella sua modesta ma ben arredata casa, proprio sopra a un cinema classico dell’epoca. Questo furto non passerà inosservato: i “proprietari” della creatura inizieranno a cercarla con cattiveria pur di riaverla.
Un magico salto silenzioso nel muto mondo di una normalissima, o quasi, donna delle pulizie, che si trova confrontata con un grande amore un po’ particolare. Un incontro casuale che muterà in un grande amore passionale, fatto di nuove scoperte e toccanti sguardi silenziosi.

Del Toro si butta in un racconto rischioso e facilmente incomprensibile e banale, ma come ci dice in un’intervista: “failure and success live next door to each other, and they have no number at the door. You just knock and you hope is the right door” (Guillermo del Toro on The Shape of Water su Jimmy Kimmel Live).
Beh, direi che il suo tentativo di successo è andato a buon fine, il racconto fonde una storia d’amore con la dovuta d’ose di azione e magia.
Uno dei pochi film candidati all’Oscar che davvero se lo merita.

IT

Una forte amicizia tra sette ragazzini, un legame che li rende quasi invincibili, una cittadina malvagia che li fa scomparire uno dopo l’altro. Su queste tematiche cresce la sceneggiatura “IT” di Andrés Muschietti, basata sul omonimo romanzo dello scrittore Stephen King, pietra miliare della letteratura horror.

Un intricato ma allo stesso tempo lineare racconto, che porta i sette ragazzini a svelare il segreto del mostro della città, che si rintana nelle fogne proprio sotto le strade. Un horror che fa paura, un horror che non riesce, però, e tenere tesa la tensione fino al momento dello scoppio. Un sali scendi tra uno spavento e l’altro.

I ragazzini, ognuno con la sua caratteristica, creano un gruppo invincibile e coraggioso, il classico gruppo di amici bullizzato dai grandi, che si ritrova per risolvere i grandi problemi del mondo. Le loro biciclette, che diventeranno il mezzo di trasporto migliore, ricordano molto quello Stranger Things di cui adesso tutti parlano.

Derry, la città che ospita questa piccola popolazione distrutta dalle molteplici sparizioni di bambini, è malvagia, popolata da genitori che “fanno schifo”, che non riescono a capire i propri figli e le loro necessità. I genitori rimangono indifferenti nei confronti dei problemi dei figli: ragazzini wesandersoniani, con abiti leggeri, che ricordano in particolare Suzy, la ragazzina di Moonrise Kindom del 2012. Questi ragazzi crescono e maturano nel corso del film, scoprono l’attrazione verso l’altro sesso, passo dopo passo, e cercano di sconfiggere le loro paure.

Un horror non terrificante ma con una buona dose di paura, quella paura che mantiene in vita lo spaventoso Pennywise!

Miséricorde 

Desolazione, paura, perseveranza e solitudine. Queste le tematiche che emergono dal nuovo film di Fulvio Bernasconi, Miséricorde. Un giallo intricato che si snoda tra le strade desolate del Sud Dakota. Da una parte una comunità di nativi americani in lutto per la perdita di un figlio e dall’altra un poliziotto svizzero, anche lui invischiato in un omicidio, alla ricerca del colpevole del crimine.

Quelle strade desolate che si estendono per chilometri e chilometri frequentate da pochi ragazzini sulle due ruote che si spostano tra un pino e l’altro. E tanti, tanti grandi camion che trasportano materiale da una città all’altra. È proprio qui su queste strade che la storia di Thomas e il popolo di nativi si sviluppa.

Per rappresentare questo grande contrasto tra la natura pura delle distese infinite e la tecnologia sulle 8 ruote dei grandi camion, vengono utilizzate ottiche molto lunghe, dei teleobbiettivi che riescono a rappresentare tutti gli oggetti vicini tra di loro. Le colline sulla strada rimangono sullo stesso piano dei pini e della strada, le casette della riserva indiana sono una attaccata all’altra e le grandi pianure diventano ancora più spoglie e inospitali.

Accanto alla figura dominante di Thomas alla ricerca del colpevole, troviamo due figure contrastanti. La madre del giovane defunto dal viso disperato e l’assassino dal viso sconvolto, un assassino particolare, totalmente diverso da quello che ci possiamo immaginare, con una vita che verrà rovinata da quell’errore. Questi due volti si scontreranno verso la fine del film, per alcuni secondi che si congelano, diventando infiniti. Gli occhi di una madre orfana contro gli occhi innocenti e assassini di una madre di 2 figli. La comprensione negli occhi di una e la colpevolezza negli occhi dell’altra.

Un film che con colori tenui e inquadrature pacificanti ci butta in faccia un omicidio, l’alcol e la violenza della cattiveria. Un film che riesce a farci ragionare su temi esterni alla storia, nei quali ogni spettatore si può rivedere.

Microbe et Gasoil

Film francese che apre degli interrogativi sull’amicizia, sull’adolescenza e sulla voglia di evadere da una vita monotona e distruttiva di due ragazzi della Versailles dei nostri giorni.

Gli ambienti familiari dai quali fuggono porteranno i due giovani a percorrere, insieme, un processo di maturazione, di crescita e di presa di coscienza di loro stessi e delle famiglie che li hanno cresciuti.

Il racconto è un “road movie” d’iniziazione. I personaggi subiscono o compiono un viaggio personale di maturazione girovagando per le campagne francesi. Gli incontri e scontri compiuti fanno riflettere i personaggi e di conseguenza anche lo spettatore che è totalmente immerso in un ambiente magico e giovanile.

La sceneggiatura serrata, curata dal regista stesso, trova libertà nella recitazione quasi spontanea degli adolescenti, una qualità che porta lo spettatore a non addormentarsi sulla poltrona del cinema ma lo tiene attentamente legato alla successione di eventi che avvengono nel percorso turbolento di sviluppo interiore.

In poche parole, una commedia con sfumature drammatiche che ci trasporta dentro ai problemi e attraverso le tematiche e gli interrogativi che ogni adolescente si pone nel corso della sua crescita.