Ant-Man and the Wasp: Quantumania

Un titolo che di sicuro riempie la bocca per un film che ti svuota il cervello. Dopo aver visto le svariate recensioni negative, la curiosità di vedere l’ultimo film dei Marvel Studios era alle stelle. Per anni sono stati idolatrati per ogni minimo prodotto che facevano, solo negli ultimi mesi vengono, giustamente, criticati (ehm ehm She-Hulk). Premesso che, fino a Endgame, mi ritenevo un grande fan del MCU, ma una volta finita l’Infinity Saga è abbastanza palese che in casa Marvel non sanno proprio che pesci pigliare. Ma andiamo con ordine.

Ve la faccio breve, Scott Lang e la sua compagnia di umani-insetti (Hope, Janet, Hank e Cassie) finiscono nel reame quantico, un universo piccolissimo nascosto “sotto” al nostro. Si scopre che è abitato da molti personaggi stravaganti, tutti minacciati dal potentissimo Kang, soprannominato il Conquistatore. La gang dovrà trovare il modo per riuscire a tornare sulla Terra e riuscire a fermare Kang nella conquista del multiverso.

Va detto che questo film ha un peso enorme: non solo inizia la Fase 5 dell’universo Marvel, ma introduce ufficialmente quello che sarà il cattivo principale di tutta la saga. Levati Thanos, adesso c’è Kang che, non solo minaccia la Terra, bensì tutti gli universi esistenti. Tutto questo lo deve fare con la solita ironia da quattro soldi tipica di Ant-Man, che non trova nessuno spazio in una trama che traballa dopo ogni frase. Una cosa che trovo affascinante nei film Marvel è il fatto che non hanno bisogno di un introduzione. Noi già conosciamo i personaggi, dove sono, cosa hanno fatto e cosa fanno. La struttura narrativa tipica di un film non regge quando si parla di Marvel, perché non abbiamo bisogno di nessuna introduzione, sappiamo già tutto quello che abbiamo bisogno. Così il film inizia subito nella prima decina di minuti, senza troppi fronzoli. Quindi dove sta il problema? Non solo l’introduzione viene saltata per i personaggi che già conosciamo, ma anche per quelli che non abbiamo mai visto. I novellini vengono quindi molto spesso sbolognati con una frase: “Ciao sono [INSERIRE IL NOME] e sto dalla tua parte per [INSERIRE IL MOTIVO]” (gli sceneggiatori vanno in panico quando il personaggio non sta dalla parte del protagonisti). Il film è quindi un miscuglio di personaggi che si pensa di conoscere, ma che sono in realtà tutti uguali.

L’unica cosa che viene fatta vene in questo film è l’introduzione di Kang. Non è facile seguire il concetto di multiverso in questa nuova saga, essendo sparsa tra film e serie nel corso di mesi e mesi, ma grazie anche a una bella interpretazione di Jonathan Majors, si capisce la minaccia di Kang, da dove viene e, soprattutto, la sua particolarità (che non sto qui a spiegare, guardate la scena a metà titoli di coda). Rimane però un problema, ed è quella magia che in questi nuovi film si sta perdendo. Questo nuovo cattivo non viene costruito con un climax, bensì lo vediamo così di botto, sparso ovunque nel multiverso, senza un vero motivo. Insomma, sembra una minaccia che è sempre stata presente, ma ce la presentano come una novità. Se prendiamo l’esempio di Thanos, prima di vederlo come una grossa minaccia sono passati anni, veniva nominato qua e là o mostrato in qualche breve scena, mai come un cattivo principale. Ed era proprio questo il bello della saga passata: anche se i film non erano direttamente legati tra loro, c’era un fil rouge che continuava grazie alle gemme dell’infinito e, in sottofondo, Thanos. Adesso, nel disperato bisogno di un appiglio per catturare il disinteresse dei fan, ci sparano in faccia tutto quello che c’è da sapere su Kang. Peccato.

Tutto sommato si può dire che, attraverso Kang, il film sa dove vuole andare e cosa ci vuole presentare. Purtroppo, non ha la minima idea di come farlo. È come se chi avesse girato questo film aveva solo la pagina iniziale e la pagina finale, tutto quello che ci sta in mezzo è stato messo all’ultimo. Vi faccio un esempio: Scott e Cassie arrivano in un villaggio pieno di alieni, tutti pensano che loro siano cattivi e non credono a nulla di quello che dicono. Per fortuna arriva un tizio (di cui ovviamente non ricordo il nome) che è in grado di leggere nella mente. Lui arriva, fanno quattro battute terrificanti, legge nella mente di Scott e Cassie, dice “hanno ragione, non sanno niente, sono bravi”, va via e poco dopo muore. Un personaggio inutile, creato solo ed esclusivamente per tagliare la trama finita in un vicolo cieco. Ed è pieno di momenti così, alcuni più imbarazzanti di altri, che fanno saltare i personaggi da un posto all’altro, fino ad arrivare alla conclusione. E, mamma mia, parliamo della fine. Io non so cosa voglia dirci la Marvel sulle formiche, sono arrivati ad un livello di disperazione molto alto. L’esercito di Kang viene distrutto grazie alle formiche giganti super-intelligenti di Hank, ecco. Questa è la fine di due ore di film. Scott non fa un cazzo eh, tutto le formiche che, prima di entrare nel reame quantico sono finite in un wormhole e, dopo millenni, si sono evolute e hanno ritrovato Hank!! Gli sceneggiatori stanno male.

La Marvel fino a qualche anno fa riusciva a prendere tutto quello che voleva e metterlo sullo schermo in modo molto credibile. Ce l’ha fatta, contro ogni previsione, con il primo Ant-Man. Adesso hanno completamente perso questo pregio, già si vedeva in Thor Love & Thunder, ma qui siamo ad un livello molto più alto. Se un personaggio non è credibile, lo spettatore non è convinto e la storia non viene ascoltata. Questo film ne è la dimostrazione. Hanno pure provato a fare MODOK in live action: dal primo frame in cui si vedeva questa testa gigante volare in giro tutti in sala ridevano.

Il tutto è coronato da delle interpretazioni pessime, soprattutto di Kathryn Newton (Cassie), di cui è stato fatto un recast. Meglio tornare con l’attrice originale. L’unico che spicca è Kang e quei pochi minuti con Bill Murray.

Volevo provare a fare una riflessione un po’ più profonda sul futuro dell’MCU, ma mi trovo accecato dalla delusione. Stanno cercando di fare tutto e subito, nel modo più sbagliato possibile. I film e le serie escono a caso. Non c’è più nessun legame tra di loro. La coesione che caratterizzava il re dei blockbuster è stata completamente persa, e noi spettatori (e un po’ fan), come loro, arranchiamo nel buio di storie che non vanno da nessuna parte.

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Manodrome

Jesse Eisenberg è stufo di fare sempre la parte dello sfigato e ha così deciso di cambiare completamente tipologia di personaggio. In Manodrome è Ralphie, un giovane uomo che lavora per Uber con una ragazza, Sal, pronta a partorire a momenti. La vita non è facile, nessuno lo tratta seriamente, e i soldi scarseggiano. Come può fare per riprendersi in mano la sua vita? Attraverso un amicizia in comunque, conosce Papà Dan (Adrien Brody) e la sua famiglia, composta esclusivamente da uomini. Questo particolare gruppo vive, per scelta (?), senza donne, convinti che sono proprio loro a scombussolare il cervello di un uomo e a rovinargli la vita. L’unico modo per vivere a pieno è quindi quello di essere in una comune di soli uomini. Ralphie sarà quindi disposto ad abbandonare Sal e il suo futuro figlio per l’ideale malato di uno sconosciuto?

Avete in mente Fight Club? Togliete Fight e avete ottenuto Manodrome. Fin troppo ispirato al film di Fincher, spesso ti chiedi quando inizieranno a menarsi i protagonisti, e ovviamente non succede mai visto che non ha niente a che fare con quella trama. Manodrome tratta la mascolinità tossica esattamente nello stesso modo in cui Fight Club tratta il capitalismo. Non è facile parlare di questo argomento senza entrare nel banale, e purtroppo Manodrome un po’ banalotto lo è. Tranquilli, alla fine Ralphie e Dan non sono la stessa persona (purtroppo), ma non nego di averci pensato più di una volta durante la proiezione.

In fin dei conti Ralphie è un personaggio abbastanza interessante, soprattutto perché interpretato da Jesse Eisenberg. Il classico sfigato vittima di tutto e tutti che non riesce in nessun modo a farsi valere. Ossessionato dalla palestra, cerca un modo per essere soddisfatto di sé stesso, ed è soltanto sollevando pesi come un mulo e ammirandosi allo specchio che trova un po’ di pace. Lo stress della vita di tutti i giorni lo schiaccia a tal punto da chiedere aiuto a Dan e “famiglia”. Ed è qui che mi sono sorte le prime domande. Ralphie li contatta esclusivamente per bisogno di denaro e, a parte qualche paio di scarpe e una maglietta, non c’è nessun vero scambio di soldi tra Ralphie e gli altri. Papà Dan gli spiega il concetto della loro comune, Ralphie è insicuro e basta, il resto è un tira e molla tra i due. Il viaggio psicologico del protagonista, che alla fine veniva costruito con un climax, rimane completamente in stallo dal momento che appare Adrien Brody, fino alla fine del film in cui c’è l’epifania conclusiva. Lo trovo abbastanza un peccato, siccome lascia molto non detto, bisogna capire tutto esclusivamente dalle espressioni di Jesse Eisenberg (che in realtà fa un ottimo lavoro in questa parte).

Non c’è più molto altro da dire riguardo Manodrome. Sembra una riflessione lasciata a metà sulla mascolinità di cui non si vuole mai parlare e, anche qui, viene esplorata poco per lasciare spazio ad un gruppo di fanatici senza spiegare cosa fanno veramente.

Blackberry

La mia relazione di amore/odio con i film biografici continua, stavolta, grazie a dio, in positivo, probabilmente perché in questo caso non si parla di un biopic su un personaggio specifico, bensì su uno dei telefoni di più successo della storia della tecnologia: ovviamente il Blackberry. Per quanto la trama non sia né accattivante e nemmeno originale, il film riesce ad incollare lo spettatore allo schermo in modo molto intelligente.

Non siamo a Los Angeles o nella Silicon Valley, ma soltanto in un ufficio pieno di sfigati nel bel mezzo di Ontario, in Canada. Loro formano la Research In Motion, di cui Mike Lazaridis è CEO e Douglas mascotte ufficiale. Stanno per preparare il prototipo di un telefono che permetterà di inviare anche delle e-mail: sarà proprio come avere un computer nelle proprie mani. Ovviamente mancano i soldi e, dopo vari scontri, fanno squadra con Jim Balsillie, un agguerritissimo uomo d’affari pronto a tutto pur di far soldi. Così nasce il Blackberry, il famosissimo smartphone con la tastiera dominerà il mercato per anni. Tutto va bene, finché, nel 2007, la Apple organizza una misteriosa presentazione destinata a cambiare le sorti dell’azienda.

Il film è semplice, lineare e a tratti anche molto divertente. Ti permette di seguire la trama a volte complessa, tra pugnalate alla schiena e contratti illegali, tranquillamente e senza troppe domande. Lo stile di regia (il regista, Matt Johnson, interpreta anche Douglas) è chiaramente ispirato a quello di Adam McKay: camera quasi sempre in movimento, zoom veloci, da sembrare quasi un mockumentary. Ha forse esagerato con gli zoom, dopo due ora la tecnica risultava ripetitiva e non dava più nulla di nuovo al racconto o all’inquadratura, sembrava semplicemente la continuazione dello stile che aveva all’inizio. Infatti, inizialmente con questa tipologia di zoom permetteva di concentrarsi su determinati dettagli spesso ricorrenti nel film, in particolare un ronzio che fuoriesce dagli oggetti elettronici made in China che Mike tanto detesta. La macchina da presa è sempre pronta ad evidenziare gli oggetti, le espressioni e le reazioni di ogni personaggio. Ed è proprio questo che rende il film più fluido e altrettanto divertente, soprattutto per il personaggio di Douglas, un classico nerd senza freni completamente fuori dalla sua comfort zone quando si tratta di affari.

La storia è raccontata, per la maggior parte del tempo, dal punto di vista di Mike, la mente di tutto il progetto. Il film evolve così come cambia Mike: se all’inizio i colori erano forti e caldi come il suo carattere, alla fine tutto diventa cupo e freddo, esattamente come Mike. La sua ossessione per riuscire a creare il prodotto perfetto è infine quella che fa cadere l’impero che lui stesso ha costruito. Sentendosi il re di un mercato completamente nuovo da lui creato, quello degli smartphone, rimane schiacciato dalla sua stessa evoluzione. Alla fine si rivela essere una persona legata unicamente all’orgoglio, senza comprendere minimamente quello che gli succede intorno, e diventa così non solo una vittima degli eventi, ma soprattutto una vittima di sé stesso. Nemmeno la fatidica presentazione dell’iPhone riesce a fargli aprire gli occhi, e accecato dall’orgoglio continua ad affermare che lo schermo tattile è un’idea idiota, i consumatori vogliono il click della tastiera Blackberry. Beh, ovviamente sappiamo com’è andata a finire.

Il film dà il meglio proprio nella scena finale, che chiude il cerchio evolutivo di Mike. Nei primi minuti del film, vediamo Mike che, pur di far smettere quel fastidiosissimo ronzio made in China che esce da un altoparlante, lo apre e lo aggiusta pochi secondi prima dell’importantissimo pitch del Blackberry. Nella scena finale, vediamo Mike completamente trasformato in un uomo d’affari, intento ad aprire il nuovo modello Blackberry Bold arrivato dalle nuove fabbriche cinesi. Lo accende e sente il ronzio. Lo apre e lo aggiusta. Apre un altra scatola e fa lo stesso. Si trova in un magazzino, solo, con migliaia e migliaia di telefoni difettosi. Il capitano affonda su una nave che nemmeno conosce.

Voto: 3.5/5

Reality

105 minuti di interrogatorio, lineari, non romanzati, non arricchiti di particolari, solo la messa in scena nuda e cruda della registrazione audio effettuata dall’FBI il 3 giugno 2017 in una piccola casa della Georgia.

Reality torna a casa in auto, parcheggia e non ha il tempo di uscire dall’abitacolo che due uomini bussano al suo finestrino e le si presentano come due ufficiali del Federal Bureau con un mandato di perquisizione per casa sua.

Tutti rimangono molto tranquilli e la registrazione audio procede, con la trascrizione addirittura del cane quando abbaia, dei colpi di tosse, delle risatine tra i due colleghi che conducono l’interrogatorio e così via.

Reality è accusata di “rimozione di materiale classificato da una struttura governativa e invio a un organo di stampa”, è riuscita a trafugare dei documenti top secret riguardo lo spionaggio da parte dei russi verso gli Stati Uniti durante le elezioni di Trump nel 2016.
L’FBI riesce a rintracciarla e la arresta alla fine dell’interrogatorio effettuato nella sua casa in Georgia.

Potremmo guadare questo film in due modi, sotto due chiavi di lettura differenti:

Da una parte, si potrebbe criticare dicendo che è come una puntata di un qualsiasi programma di RealTime, dove si ricrea tutta una scena, semplicemente che con un budget maggiore.

Dall’altra parte, quando un film è biografico e non si attiene alla realtà al 100%, ci si lamenta perché non è fedele ai fatti realmente accaduti… quindi o in un modo o nell’altro fondamentalmente non ci va bene nulla… e quindi trovo che questo film, anche se “solamente” una messa in scena, è davvero fatto bene e racconta la storia complessa del mondo dei Wistleblower di tutto il mondo.

L’interpretazione di Sydney Sweeney (nel ruolo di Reality Winner) è davvero notevole, lei che fino a questo film aveva lavorato per la maggior parte per prodotti televisivi (Euphoria, The Handmaid’s Tale, …), in questo film struttrato quasi unicamente da monologhi ai quali bisogna attenersi parola per parola senza poter improvvisare nulla, se la cava davvero bene.

Nel 2019 la regista Tina Satter, mette in scena “Is this a room”, uno spettacolo teatrale della trascrizione dell’interrogatorio, 4 anno più tardi arriva alla Berlinale nella sezione “Panorama”.

Quindi per concludere, “Reality” è un film lineare, teatrale e senza la pretesa di giudicare.
Il film ci presenta senza giudizio una storia che saremo noi a giudicare, saremo noi a capire e a prendere le parti.  

Il potere delle decisioni politiche, la quantità di informazioni top secret che non potremo mai sapere e le tecniche di dissuasione che l’FBI utilizza durante i suoi interrogatori, tanti elementi che ci vengono presentati semplicemnte rimettendo in scena una registrazione audio vera di un’ora e mezza.

She Came to Me

Non conoscevo Rebecca Miller e non ho scelto di guardare il film perché estremamente interessato alla trama, ho riservato il mio posto in sala perché sto pochi giorni a Berlino e quindi voglio guardare tutto quello che posso, ma uscito dalla proiezione posso dire che sono contento di aver preso il biglietto, perché “She Came to Me” mi è piaciuto!

Siamo a New York e il compositore di opere liriche Steven (Peter Dinklage) ha un “blocco dello scrittore”. Durante una sua passeggiata in giro per Brooklyn incontra per caso una donna che lavora come capitano su una vecchia nave, e dopo una notte di passione ritrova l’ispirazione per la sua prossima opera lirica.

Intanto il figlio di sua moglie (Anne Hathaway) inizia a frequentare una ragazza di 16 anni. Le famiglie nel corso del film si intrecciano e sarà difficile per ogni personaggio riuscire a liberarsi dall’ingroviglio che si è creato.

Il film racconta una storia semi-realistica, non ci racconta il caos di New York, ma quanto posano essere caotiche delle famiglie insospettabili dell’alta borghesia americana.

Trovo super interessante la rappresentazione, se vogliamo stravolta, degli adulti e dei ragazzi.
Steven, l’adulto, si fa guidare dal suo cane per trovare la musa che “guarirà” la sua creatività compositiva. Sua moglie, psicologa, avrà un momento di fobia sui kreplach (una spece di raviolo della cucina tradizionale ebraica).

Sono i ragazzi invece in questo film ad avere la “testa sulle spalle”, loro che non vedono un problema nella loro relazione, loro che sono convinti di volersi sposare, di intraprendere una vita insieme per vivere bene. Gli adulti qui sono ragazzi, con le loro crisi e con i loro scatti impulsivi senza senso visti dall’esterno.

Davvero un bel film d’apertura che apre questa 73esima edizione davvero bene (speriamo i film continueranno ad essere interessanti).