The Whale

Dopo 5 anni dai fischi di mother! (film che noi abbiamo amato), Darren Aronofsky torna in Concorso alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Insieme a lui, un altro grandissimo ritorno, quello dell’attore che ha formato la nostra infanzia e adolescenza: Brendan Fraser. Lui, insieme a Hong Chau (Homecoming) e Sadie Sink (Stranger Things), porta quello che per noi Hateful è uno dei film più forti di questa edizione della Mostra, e di sicuro quello che ci ricorderemo di più.

Charlie (Fraser) è un insegnante di inglese in una scuola online. È solo, cerca di tirare fuori il massimo dai suoi allievi e non ha altri stimoli se non quello di leggere le tesine che gli vengono inviate. Ah si, Charlie pesa 266 chili. Anche la cosa più semplice per lui è molto complessa: farsi la doccia, andare a letto, o persino alzarsi dal divano. Per questo ha Liz (Hong Chau), la sua infermiera e grande amica, l’unica persona che le dice come stanno veramente le cose, cioè: se non va all’ospedale, gli rimarranno solo pochi giorni di vita. Charlie decide di fare di testa sua e provare ad avvicinarsi a Ellie (Sadie Sink), sua figlia che ha abbandonato alla madre quando aveva 8 anni per vivere una storia d’amore con un suo allievo.

Come al solito, Aronofsky ci presenta un film molto duro e crudo. Ogni scelta presa da Charlie fa male e fa arrabbiare, il peggio è che in fondo in fondo capisci pure perché prende determinate scelte nonostante si stia autodistruggendo. Prendere Brendan Fraser è stata un’idea geniale, non solo perché dà un interpretazione magistrale, ma anche perché lui, proprio come Charlie, ha un cuore puro. Lo spettatore vede entrambi, e prova affetto per entrambi: sia per Charlie che si rovina la vita, sia per Fraser che sta tornando nei grandi film Hollywoodiani.

La pugnalata più grande che il film infligge è di sicuro la relazione malsana che Charlie ha con la figlia. Ellie non è una ragazzina di 16 anni, si avvicina di più ad una principessa dell’Inferno venuta direttamente dal girone più vicino a Satana. Non sa cos’è la compassione, il rispetto o la più semplice gentilezza. È l’esatto opposto di Charlie, e lui è disposto a subire tutto pur di passare qualche minuto con lei. Sotto sotto lui spera di riuscire ad insegnarle qualcosa, ben sapendo di non aver tempo a sufficienza. Ed è proprio il fatto che lei se ne frega altamente che fa ancora più male (nonostante tutto quello che Charlie ha fatto passare alla sua famiglia).

È un personaggio molto complesso quello di Charlie: ridotto così dopo la prematura morte dell’amante. Lo stesso amante con cui è scappato lasciando moglie e figlia da sole. È proprio questa scomparsa che lo fa affondare nella depressione e nel cibo. Il resto, lo vediamo nel film. La sua gentilezza si trasforma in sottomissione, verso ogni persona. Ricorda molto uno dei personaggi protagonisti della trilogia del cuore d’oro di Lars Von Trier. Se si pensa a Dancer in the Dark o Breaking the waves, i protagonisti hanno un cuore talmente puro da non rendersi conto di autodistruggersi, esattamente come succede a Charlie.

Aronofsky sceglie il formato in 3:4 che, per quanto non mi piaccia, è molto azzeccato. Il film è ambientato unicamente nell’appartamento di Charlie, il formato mostra il personaggio ancora più enorme di quanto lo è veramente. Chiuso in una scatola che non riesce nemmeno a contenerlo, deve vivere e muoversi da un punto all’altro. Vediamo la fatica e il disagio della sua vita, e raramente diamo un occhiata fuori dalla finestra. Anche l’azione quotidiana più semplice ci viene mostrata in modo tale da farci capire la difficoltà che ha Charlie nel metterla in atto.

Ovviamente, The Whale, ha un altro significato, non solo l’enormità del personaggio protagonista. Ma su questo ho deciso di non scrivere niente e di farvelo scoprire al cinema (mi raccomando non piangere troppo).

Siamo abituati bene da Aronofsky e, nonostante qualche inciampo (ehm ehm Noah), anche questa volta ha fatto centro. Purtroppo Brendan Fraser non si è preso la Coppa Volpi per la migliore interpretazione. Ma non disperiamo: aspettiamo gli Oscar.

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Athena

Preparatevi ad essere catapultati nel bel mezzo della guerriglia urbana francese in questo film che vi terrà sul bordo della sedia per tutta la sua durata. Romain Gavras in regia (figlio di Costa), ci regala un esperienza incredibile. Riesce, non si sa come, a far fluttuare la macchina da presa in mezzo a centinaia di comparse e ad un casino immenso.

La trama, forse l’unica parte dolente del film, è molto semplice: in uno scontro a fuoco, la polizia francese uccide un 12enne, ennesima vittima in una lunga lista di omicidi da parte delle forze armate francesi. Karim, uno dei tre fratelli della giovane vittima, decide che è tempo di contrattaccare. Grazie a tantissimi abitanti del suo quartiere, chiamato Athena appunto, distruggono una centrale di polizia e riescono a rubare delle armi. Così inizia la battaglia: da un lato gli abitanti di Athena, disposti a tutto pur di ottenere il nome dei poliziotti del 12enne, dall’altro la polizia francese, che nega ogni legame con quell’evento. I problemi non finiscono qui: uno dei fratelli di Karim, Abdel, è un poliziotto. Non sarà quindi solo il quartiere a scuotersi, ma anche il legame tra i due fratelli.

Il film dura 1 ora e 40, e si può quasi dire che è anche il tempo che passa effettivamente nel film, visto che è principalmente fatto con dei lunghissimi piani sequenza che fanno stare lo spettatore in apnea per molto tempo. È incredibile come riesca a farti entrare subito, dal primo minuto, in questa situazione di caos completo, e non lascia la morsa nemmeno per un secondo. È un film rapido, violento, feroce, proprio come i protagonisti. Non si vede mai Karim parlare a bassa voce o a sedersi per fare una pausa, nemmeno una volta, lo vediamo correre in giro in continuazione, a urlare ordini a destra e a sinistra. È impossibile descrivere la sensazione di caos che il film ti dà, ed è incredibile come riesce a tenere alta la tensione per tutta la sua durata.

Durante la mostra, parlando con altri festivalieri, ho sentito gente dire che lo ritenevano fin troppo caotico, paragonandolo ad una clip musicale piuttosto che ad un film, e che lo spettatore ha bisogno di un momento di pausa, non può guardare quasi due ore di caos puro.

Io mi trovo in completo disaccordo: Gavras vuole portarci proprio lì, e in una situazione realistica le persone implicate non possono fare pause, non possono avere un attimo di calo di tensione, ci sono in mezzo e devono resistere fino allo sfinimento. Ed è esattamente così il film: tensione continua, esattamente come se fossimo lì con loro a batterci contro la polizia. Il tutto gestito in modo perfetto con dei piani sequenza che fanno venire i brividi, vi basterà vedere i primi 15 minuti per capirlo (esatto, 15 minuti iniziali di piano sequenza).

Molto interessante anche la relazione tra i fratelli Karim e Abdel (c’è anche un terzo fratello che fa lo spacciatore di cui non ho capito l’utilità). Abdel ha perso un fratello, ma non può andare contro l’istituzione per la quale lavora come sta facendo Karim. Non è solo una lotta di potere, ma anche di appartenenza e lealtà verso la famiglia o un’entità ideata per proteggere, ma che nel corso del film la vediamo solo “distruggere”.

Purtroppo non ha vinto nulla, ma se volete recuperarlo (altamente consigliato!) lo potete trovare su Netflix.