Matter Out of Place

Unico documentario nel Concorso Internazionale di quest’anno, Matter Out of Place è anche il più “verde”. È molto probabile che sarà il vincitore del primo Green Pardo, nuovo premio del Festival di Locarno in collaborazione con WWF. Fatto principalmente di inquadrature fisse, il film mostra i diversi viaggi che fanno i nostri rifiuti in molte parti del mondo. A parte i 10 minuti iniziali e i 10 minuti finali, è completamente privo di dialoghi, il regista lascia parlare le immagini.

E le immagini parlano, eccome, e arrivano dirette in fronte allo spettatore senza se e senza ma. Il problema principale, a parte la lunghezza, è probabilmente la ripetitività del film. All’inizio è molto interessante: passa da un posto all’altro, il successivo come antitesi del precedente, mostrando come in ogni parte del mondo vengono gestiti i rifiuti. All’inizio in una campagna, poi in una città povera dell’Asia, poi una stazione sciistica, subito dopo un’isola sperduta nell’oceano, dopo ancora nei fondali marini, per finire nel deserto americano. L’ordine del film è chiaro, c’è un fil rouge che lega ogni posto a quello visto in precedenza. L’attenzione però non tiene abbastanza di fronte ad una scena che mostra sempre la stessa cosa per 10 minuti. Per esempio, vedo un tritarifiuti che trita i rifiuti dal momento che vengono buttati dentro fino a quando sono completamente tritati. Una scena di almeno 10 minuti che mostra sempre la stessa cosa, ed è veramente troppo pesante per un film di 1 ora e 50.

Soprattutto perché il messaggio è chiaro fin dall’inizio, sarebbe bastato qualche taglio e magari qualche discorso (anche solo sulla gravità o sulle specifiche della gestione rifiuti in quel paese specifico) per rendere il film molto più interessante.

È vero che molto spesso le immagini valgono più di mille parole, così si dice. Ed è vero per, forse, un’ora, ecco il limite che riesco a darmi. Nei 50 minuti successivi, qualche parola avrebbe reso il tutto più godibile e, chi lo sa, forse anche più comprensibile.

Ovviamente niente da dire sulle immagini vere e proprie che vengono mostrate. In modo intelligente, ogni volta che cambiamo ambientazione, si parte da un inquadratura vasta, che quasi non ti mostra la spazzatura presente. Va poi sempre più in dettaglio, finché lo spettatore si rende conto che quello che pensava fosse una foglia, o un cespuglio, è in realtà un ammasso di rifiuti. E sì, faceva molto effetto.

Si può dire che l’idea è buona, e può già considerarsi vincitore (gliela gufo), ed è anche vero che è un discorso di cui si parla quasi quotidianamente, ed è (in alcuni casi) superfluo aggiungere dettagli inutili. Ma, per favore, pensate alle persone che devono guardarsi 1 ora e 50 di spazzatura senza dialoghi.

Voto: 3/5.

Pubblicità

Candy Land

Quando è uscito il programma della 75esima edizione del Festival di Locarno, mi aveva già colto un’amara tristezza: non è presente nessuna proiezione di mezzanotte. Quelle più cattive, che l’anno scorso ci hanno regalato quel capolavoro che è The Sadness. Ho dovuto fare una lunga ricerca nel programma di quest’anno per trovare Candy Land, il film (più o meno) shock di questa edizione. E che soddisfazione!

Ritroviamo il regista John Swab, già conosciuto a Locarno 74 in Piazza Grande con il film Ida Red. A noi Hateful non era piaciuto, ma si è completamente rinnovato con questo nuovo film. Siamo nel bel mezzo dell’America. In una stazione di servizio per camion, troviamo Sadie, Liv, Riley, Levi e la loro “protettrice” Nora. La banda si occupa di accontentare i passanti, diciamo. Ognuno ha la sua zona, i suoi clienti e la sua camera: la vita a Candy Land. Tra i passanti si trova di tutto, anche una comitiva di una setta religiosa in cerca di nuovi seguaci. La fine è vicina, dicono. Un giorno le ragazze trovano Remy, una ragazza che fa parte della setta ma è stata abbandonata nella stazione di servizio. Per pagarsi da vivere, Remy decide di fare quello che fanno le suore nuove coinquiline, ma dei misteriosi omicidi rovinano l’equilibrio di Candy Land.

Già si sa che l’America è spaccata, e in questo film vediamo le due fazioni scontrarsi con forza una contro l’altra. Da un lato i menefreghisti, i peccatori, le donne e gli uomini facili, che non guardano in faccia a niente e a nessuno pur di avere qualche dollaro, nemmeno all’orgoglio. Dall’altra i santarelli, religiosi nell’ideologia ma non tanto nei fatti, che vogliono salvare (e essere salvati) gli altri per andare in paradiso. Sempre perché, come detto prima, la fine è vicina. Non si salva nessuno in questa Candy Land, una volta che ci arrivi, abbandoni ogni principio e pensi alla sopravvivenza.

È proprio questo che ha dovuto fare Remy una volta che è stata abbandonata nella stazione di servizio: è entrata a far parte della fazione opposta, come un infiltrata. Ed ecco un’opportunità, poter attaccare i nemici direttamente dall’interno, in modo da purificargli l’anima e mandarli in paradiso. E così fa. Con una furia omicida approfitta del suo nuovo ruolo da prostituta per purificare (cioè, ammazzare malamente) ogni peccatore che le passa davanti. La controversia è evidente: uccidere è sbagliato, come possono essere giustificati gli omicidi di Remy? Chiaramente il film non è così profondo, si tratta solo di una persona malata, troppo convinta e radicata in un ideologia che prende la maggior parte della popolazione americana, ma è comunque un ragionamento che va fatto. Solo perché loro sono credenti e chiedono perdono possono fare tutto quello che vogliono? Quale differenza c’è tra i peccati che commettono le sue colleghe e quelli che commette lei?

Il film è pieno di controversie, non solo con Remy e la sua pazzia, ma anche su molti clienti che passano a Candy Land. Il primo cliente di Remy è proprio un prete ultra 70enne. Più chiaro di così.

Più si va avanti, più si può dire che le due fazioni possono essere condensate in una grande fazione mista, dove tutti fanno quello che credono sia giusto, sbagliando completamente.

Va detto che non è un film per tutti. La violenza gratuita, soprattutto nella seconda parte, la fa da padrone. Ma è esattamente quello che cercavo.

Voto esagerato: 4/5

Gigi la legge

Siamo in piena campagna italiana. È estate, fa caldo. Noi seguiamo Pierluigi, detto Gigi, agente della polizia locale di un paesino sperduto nel Friuli. Le giornate passano veloci e tranquille, Gigi conosce tutti, tutti conoscono Gigi. Un giorno, lui e un suo collega scoprono un corpo sui binari che passano vicino al paese, e un personaggio misterioso che era già lì, dicendo di averlo visto. Nel corso delle tranquille giornate, Gigi incontra amici e ammazza il tempo, ma non riesce a togliersi dalla testa quell’uomo misterioso.

Un film spensierato che racconta la tranquillità della periferia. Alessandro Comodin mostra il suo paesello d’origine senza filtri, la semplicità, la quotidianità e le controversie. Il regista gioca molto su quest’ultimo punto. Come dice Gigi: molte cose è meglio pensarle e non dirle. Questo è un po’ il fulcro del film, quasi niente viene detto in modo diretto, tutto rimane nell’aria calda estiva e si preferisce lasciar andare piuttosto che affrontare ciò che si ha in testa. Seguiamo Gigi mentre parla con la gente del posto e gestisce alcuni casi difficili, come quello di un suicidio o portare una ragazza in manicomio. Ma non sappiamo mai come quei casi finiranno, così come Gigi non lo sa, siccome esce dal suo campo d’azione. Non solo questo, ma anche l’importanza di questo livello di polizia viene messo in questione, è più un controllore che un poliziotto, in alcuni casi quando vede qualcuno fare qualcosa di illegale dice: fai attenzione alla polizia che ti dà la multa! E continua la sua pattuglia.

È uno spaccato di realtà che, nel suo piccolo, rappresenta la quotidianità di tutte le città, più o meno grandi. Anche noi, come spettatori, vediamo eventi verificarsi sotto i nostri occhi e non facciamo niente al riguardo. Gigi, nonostante rappresenti la “giustizia”, è esattamente come noi. In un particolare momento decide di sua spontanea volontà di voler seguire un sospetto omicida, ma viene fermato dai colleghi, che gli consigliano di continuare a fare quello che gli viene detto e non rischiare inutilmente una sgridata. E anche qui, alcune cose è meglio pensarle piuttosto che dirle.

Il film è ancora più sorprendente grazie all’interpretazione di Gigi, non essendo attore professionista ma proprio poliziotto, e zio del regista. Tutti quelli che vediamo nel film non sono attori, ma gente del posto e colleghi di Gigi. Si potrebbe quindi definire il film un docufiction, visto il forte legame che i protagonisti e la trama hanno con la realtà.

Se siete a Locarno potete recuperarlo martedì 9 alle 18:00 o mercoledì 10 alle 21:00.

Voto: 3.5/5

Stella est amoureuse

Per Stella, è arrivato l’anno della maturità. Completamente disinteressata dalla scuola, spera soltanto di ottenere il minimo indispensabile per passare. È appena tornata da una vacanza in Italia con le amiche, una vacanza che dà inizio ad un cambiamento: si è innamorata per la prima volta. Adesso, tutto le sembra piatto, tutto le sembra futile, le interessa solo andare a ballare. Il padre ha lasciato la madre per un altra donna. La madre fa il possibile per tirare avanti con il suo bar. Le sue amiche pensano solo a studiare. In discoteca conosce André, il ragazzo che balla meglio di tutti, e ancora una volta, Stella è innamorata.

Ambientato negli anni Ottanta, Stella ci racconta il suo cambiamento. Quasi tutto il film è raccontato con la sua voce fuori campo. Così, noi sentiamo l’indifferenza di Stella: gli eventi ce li racconta veloce, in un’unica frase, nonostante la gravità e le conseguenze che quell’evento possono avere. Mio padre se n’è andato con un’altra, anche lei si chiama Stella. E basta. Si lascia scivolare tutto addosso ciò che non le interessa, facendo di tutto pur di non pensare al suo futuro. Grande fonte di ansia è soprattutto il diploma. Lei non è una gran studiosa e, con molta probabilità, non riuscirà ad ottenerlo. Deve gestire questo difficile equilibrio: essere indifferente ad eventi che cambiano la sua vita e salvare il suo futuro il prima possibile.

Ma adesso a Stella interessa una sola cosa: ballare. Grazie ad un’amica scopre le discoteche, e qui vediamo un cambiamento radicale. Le scene non sono più veloci e distanti come tutto il resto del film. Stella non parla più fuori campo. Noi siamo in discoteca con lei, siamo nel suo vero habitat. Le scene sono dilatate e sentiamo solo musica, vediamo solo gente ballare, bere, fumare, nient’altro. Per un attimo, anche noi dimentichiamo le preoccupazioni che mandano avanti la trama del film, adesso c’è solo Stella libera. Sarà molto difficile per lei dover gestire questa libertà, che finirà per rovinare molte sue amicizie.

Per lei è molto importante la relazione con la madre, che nonostante tutto le è sempre vicino e sempre complice. Insieme, riescono ad uscire da tutte le brutte situazioni ridendo e scherzando.

Una bellissima interpretazione della giovane Flavie Delangle regala un ottimo film, spensierato, che fa vivere la giovinezza della ragazza.

Se siete a Locarno potete recuperarlo lunedì 8 alle 18:00 e martedì 9 alle 21:00.

Voto: 3.5/5

Il Pataffio

Il Marconte Berlocchio va, con la sua schiera di corte, nel suo nuovo castello con la novella moglie Bernarda. Il Marconte scopre però che il suo feudo, così come il suo titolo, è completamente vuoto. Qualche villano morto di fame che ci abita, con nulla da mettere sotto i denti, nemmeno un pezzo di terra concimabile, e soprattutto un castello mezzo distrutto, usato per tenere le bestie. Berlocchio, deciso a farsi rispettare e ad essere accolto come signore del suo feudo, farà di tutto pur di essere accettato dai villani e a rendere il suo castello più abitabile.

Francesco Lagi dirige un grandissimo cast in questo film in costume, tra cui Lino Musella, Valerio Mastandrea, Giorgio Tirabassi e un grandissimo Alessandro Gassman che, nel ruolo del Frate Cappuccio, spicca su tutti.

Comincio dal più grande difetto del film: la lunghezza. Queste due ore si sono fatte sentire, e non poco, nonostante i tanti stacchi comici. Con mezz’ora in meno, riusciva a fare passare lo stesso messaggio in modo forse più leggero, ma anche più diretto.

Il Pataffio parla di potere, di come usarlo e come darlo. Partendo già dal titolo di Berlocchio, “Marconte”, che è un titolo che non esiste, la moglie Bernarda dice già una grande verità: non è il titolo a fare la persona, ma la persona a rendere onore al titolo. Berlocchio si aspetta di avere tutto e subito, senza dare niente, solo ed esclusivamente perché facente parte della nobiltà, senza pensare al popolo, ma nemmeno ai suoi soldati. Nel corso del film, ogni suddito e ogni popolano soffre per colpa delle orribili scelte del Marconte, fatte con il solo scopo di diventare più nobile di quanto lo sia già (nonostante il suo titolo non voglia dire niente!). Tutto questo viene mostrato in chiave comica, con Giorgio Tirabassi che interpreta il consigliere Belcapo e, come detto in precedenza, Gassman nei panni del Frate Cappuccio.

Ogni personaggio ha una visione diversa, che viene sempre schiacciata da Berlocchio. Mastandrea interpreta invece il “capo del villaggio”, Migone, in lotta con Berlocchio per difendere i suoi compaesani, finché non gli viene proposto un accordo. Ancora una volta il potere viene messo in discussione, rovinando gradualmente le relazioni di ogni personaggio.

Il Pataffio sarebbe stato una perfetta commedia di 90 minuti, intelligente nonostante la leggerezza. Quei 30 minuti in più, rovinano il ritmo e la godibilità del film: essendo già abbastanza diretto sin dall’inizio, si capisce il messaggio che vuole mandare, e diventa quindi molto ripetitivo. Ci regala comunque un finale bellissimo.

Se siete a Locarno lo potete recuperare domenica 7 alle 15.30 o lunedì 8 alle 21.30.

Voto: 3/5

LOLA

1939. Due sorelle orfane, Thomasine e Martha vivono da sole in una villa isolata. Appassionate di onde radio e onde magnetiche, trovano un modo per intercettare comunicazioni dal futuro. Costruiscono così LOLA, una macchina in grado di mostrare le comunicazioni radio dal futuro. Scoprono quindi Bob Dylan, Woodstock, David Bowie, l’allunaggio, persino Stanley Kubrick, ben prima che il resto del mondo avesse una minima idea di quello che gli aspettasse, soprattutto dopo l’arrivo della guerra. Thomasine e Martha usano LOLA per intercettare i bollettini di guerra delle settimane che seguono, così da salvare migliaia di vite dai bombardamenti. Ma l’esercito inglese le scopre, ed è molto interessato alle potenzialità di LOLA come arma per finire la guerra.

Un concetto molto interessante, sfruttato ancora di più dal genere del film. Infatti è tutto un mockumentary, cioè una sorta di finto documentario. All’inizio viene scritto che il film è stato trovato abbandonato in uno studio, ed è di per sé una raccolta di scene che raccontano la storia delle due sorelle e di LOLA. Ovviamente tutto in 4:3 e in bianco e nero visto che è un film del ’39.

Escono spunti molto interessanti dalla storia, partendo con il più ovvio: bisogna usare LOLA solo per divertirsi o per aiutare il mondo? Le due sorelle scoprono letteralmente una cultura nuova e completamente diversa da quella che stanno vivendo nella loro villa abbandonata, cantando Bob Dylan e ballando David Bowie. Sono già figlie di un tempo che ancora non esiste, e vedono oltre gli orrori che stanno succedendo fuori dalla loro porta. Ma vedere migliaia di innocenti morire quando hai un enorme potere nelle tue mani non è così semplice. Nasce così L’Angelo di Portobello, cioè Martha che avvisa, attraverso onde radio, tutti i bombardamenti delle città. Per farla breve, in poco tempo iniziano a collaborare con l’esercito inglese e riescono a sconfiggere l’aeronautica tedesca. Ma succede qualcosa: la voglia di ballare sale e anche quella di sentire David Bowie, ma lui non esiste più. Al suo posto, un chitarrista quasi da chiesa. Vittime dell’effetto farfalla, le sorelle devono decidere se salvare un futuro a cui solo loro sono affezionate, oppure salvare le vite nel pericolo del presente.

La bellezza del film sta probabilmente nella semplicità con cui è raccontato. L’idea di fare un mockumentary è geniale e fa passare le emozioni molto più facilmente di un semplice racconto. Vediamo le due sorelle vivere il futuro (che per noi è il passato) in un momento in cui nessuno vorrebbe vivere il presente. Mentre fuori esplodono le bombe, nella loro villa risuona Life on Mars a tutto volume: non solo la cultura diversa, ma anche una prova che quell’orrore presto o tardi finirà. Ma allora perché aiutare l’esercito se già sappiamo che la guerra avrà fine? Perché deve vincere la morale quando c’è la dimostrazione concreta che si vivrà liberi dalle oppressioni?

Ovviamente tutti gli aiuti che LOLA dà vengono poi vanificati nella sconfitta dell’Inghilterra, cambiando radicalmente il futuro che le ragazze hanno visto. La morale ha vinto, delle vite sono salve, ma a che costo?

Raccontato con leggerezza, è un film che rimane molto dopo la visione. Tengo anche a sottolineare la citazione a Ritorno al futuro quando Martha, mentre mostra le foto di Bob Dylan e Woodstock al suo ragazzo, gli dice: i nostri figli li adoreranno!

Se siete a Locarno lo potete recuperare sabato 6 alle 14.30 e domenica 7 alle 21.30.

Voto: 4/5

My Neighbor Adolf

20 anni dopo la seconda guerra mondiale, il signor Polsky, un ebreo sopravvissuto, si trasferisce nel Sud America per cercare di dimenticare tutto quello che gli è successo. Da solo, senza nessun famigliare rimasto in vita, passa le giornate a giocare a scacchi e a prendersi cura delle sue rose nere. Un giorno, arriva un nuovo misterioso vicino a sconvolgere la sua quotidianità. Un via vai continuo di gente molto strana lo insospettisce e si costruisce una teoria: e se il vicino fosse Adolf Hitler? Polsky farà di tutto pur di convincere l’ambasciata israeliana di avere il dittatore come vicino, persino diventargli amico.

Non è facile riuscire a trattare un argomento del genere in modo leggero, ce l’ha fatta qualche anno fa Taika Waititi con Jojo Rabbit, ma qui si passa ad un livello molto più personale. Se nel primo noi eravamo “dalla parte” del nazionalsocialismo attraverso gli occhi di un bambino, qui vediamo lo shock di un ebreo che si trova davanti il suo incubo peggiore. Tutto questo in chiave comica.

Inizialmente, vediamo Polsky studiare per filo e per segno ogni caratteristica di Hitler pur di trovare una minima prova che accerti la sua teoria. Tutta la tristezza e la malinconia che lo racchiudevano nella sua casa mezza distrutta, spariscono per dare spazio a speranza e ricerca di giustizia. Non è facile convincere il pubblico che un sopravvissuto all’olocausto cambi così radicalmente modo di vivere, ma con la costruzione di questo personaggio ci riesce in modo perfetto.

Spoiler del finale – Alla fine, il vicino non è Hitler. Si scopre che fa parte della lunga schiera di imitatori di Hitler. Da nemici quindi diventano complici. Nel senso che entrambi hanno avuto la vita rovinata da uno specifico evento, e soprattutto, da una specifica persona. Il vicino spiegherà poi che è stato costretto a cambiare completamente il modo di atteggiarsi, mangiare e bere, cambiare completamente tutta la sua vita.

Una piccola sorpresa inaspettata, resa ancora migliore dalla presentazione di Udo Kier sulla Piazza mezzo ubriaco.

Voto: 3.5/5

Bullet Train

Un cast stellare (solo sullo schermo) ad aprire la 75esima edizione del Festival di Locarno nel nuovo film di David Leitch, già passato in Piazza Grande con Atomic Blonde. Dopo la premiazione “letta” di Aaron Taylor-Johnson sul palco della Piazza, veniamo catapultati subito nel blockbuster di questa edizione del Festival. A parte il premiato vediamo anche Brad Pitt, Joey King, Bryan Tyree Henry, Hiroyuki Sanada, Michael Shannon, Logan Lerman, Zazie Beetz e un sacco di altri attori in piccoli camei.

La trama vuole essere inutilmente complessa ma in realtà è semplice: Brad Pitt deve rubare una valigetta su un treno giapponese ad alta velocità. Si scopre però che questa valigetta è il bersaglio di molti altri sicari. Si faranno a botte uno a uno tra inganni e colpi di scena pur di uscirne vincitori.

Non c’è tantissimo da dire su Bullet Train. Leitch con Atomic Blonde ci dava almeno un film d’azione girato con i fiocchi, in particolare un piano sequenza indimenticabile, qui invece non abbiamo niente che spicca. Delle scritte che appaiono per dire il nome di un personaggio e dei flashback improvvisi per dirne la backstory non fanno un film originale, intendiamoci. Persino l’unico personaggio che sembra vagamente interessante (Brad Pitt, soprannominato Ladybug) passa in realtà come bidimensionale, di cui sappiamo solo che 1) è sfortunato 2) va in terapia, battuta ricorrente nel corso del film, e basta tutto qui.

In realtà nulla di nuovo per quello che il film è: un blockbuster. La sola particolarità che potrebbe rendere il film unico è la sua ambientazione: il treno Shinkansen. Trovo peccato però che non viene sfruttata per nulla. Se fosse ambientato in un palazzo o in una città, sarebbe stata la stessa cosa. Se pensiamo ad altri film con la stessa ambientazione come Snowpiercer o Train to Busan, il treno è parte portante della storia, quasi più importante dei personaggi stessi. In Bullet Train il treno è solo un insieme di stanze che a mano a mano vengono usate o ignorate, niente di più.

In particolare sorvolo sull’esagerazione di certe scene, perché non capisco mai la necessità che hanno sti film di esagerare delle scene per nessun motivo. Ad un certo punto abbiamo Brad Pitt e Aaron Taylor-Johnson appesi fuori dal treno con una cintura di sicurezza. Ripeto che il treno è uno Shinkansen che va in media a 300 km/h. Quindi o le cinture di sicurezza sono quelle degli F-18, oppure si può fare anche meno. Soprattutto perché un treno pieno di sicari uno contro l’altro intrattiene già abbastanza, non c’è nessun bisogno di aggiungere scene come questa per… Boh, non so perché.

In fin dei conti fa passare due ore abbastanza in fretta, si può dire che il test delle sedie della Piazza l’ha passato, ma non è un film che riguarderei volentieri, una volta basta e avanza. L’avrei visto molto più adatto al weekend della Piazza Grande piuttosto che come film d’apertura. Ma d’altronde capisco che ogni tanto ci sta fare “le cose in grande”.

Voto: 2.5/5