Elvis

Baz Luhrmann torna al cinema dopo 9 anni (Il Grande Gatsby era tanto tempo fa) con il film più pubblicizzato di quest’anno: la nuova biografia di Elvis Presley. Austin Butler nei panni di Elvis affiancato da Tom Hanks come il manager Colonnello Tom Parker, “The Snowman”. La storia è proprio lui a raccontarla, sul suo letto di morte, partendo da quando ha conosciuto Elvis e da come l’ha fatto diventare, beh, Elvis. Tutto questo in 2 ore e 40 minuti che non passano con facilità.

Lo stile di Luhrmann è inconfondibile: pieno di luci, sfarzi e movimenti di macchina velocissimi, soprattutto nelle transizioni, che da un lato danno originalità ad un film che di originale non ha nulla, dall’altro confonde molto il racconto. Sono proprio queste transizioni che, molto spesso, tagliano le scene senza dare nemmeno il tempo di presentare una situazione, perché già si passa alla prossima. In particolare all’inizio del film, succede un susseguirsi di eventi, uno dietro l’altro, a cui non si riesce a dare la minima attenzione: tutto troppo veloce e tagliato da queste transizioni esagerate. Andava tutto talmente in fretta che mi sembrava fosse già passato metà film, ma no, erano passati solo 30 minuti.

Il film va avanti in questo modo per un bel pezzo, a mano a mano che continua queste transizioni diminuiscono, ma le scene tagliate non permettono di aver nessun contatto con i personaggi. È tutto veloce, è tutto asettico, è tutto assente. L’interpretazione di Austin Butler, per quanto buona fosse, viene lasciata lì così, senza nessuna scena in cui brillare perché di scene intere ce ne sono poche. Questo rende Elvis una sorta di pupazzo per tutto il film. Lo vediamo nei suoi diversi stili ma senza una personalità diversa. Prima Elvis giovane, poi “il nuovo Elvis”, poi è attore, fa un revival e muore. Voilà la storia di Elvis, quello che cambia è l’abbigliamento.

Preferisco non parlare di Tom Hanks perché non voglio insultare quell’uomo. A parte che il trucco lo rendeva più Jabba The Hutt che essere umano, Hanks non si è proprio impegnato a dare questa interpretazione.

Un’altra cosa che mi ha molto infastidito è il ridoppiaggio di tantissime battute nel film. Un sacco di volte vediamo un attore di spalle che si vede chiaramente che non sta parlando, ma sentiamo la sua voce. Alcune volte, ancora peggio, un personaggio sullo sfondo sfocato che fissa la camera che non sta chiaramente parlando, ma si sente la sua voce! Non si sono nemmeno impegnati a nasconderlo.

Nonostante il film parlasse di Elvis, la colonna sonora viene dritta dritta dalla playlist Top 50 Global 2022 di Spotify, una cosa imbarazzante come non siano stati capaci a scegliere delle canzoni adatte al periodo storico in cui è ambientato il film. Quindi noi vediamo una scena dove Elvis parla con B. B. King e in sottofondo sentiamo Doja Cat. Mentre nei titoli di coda ci accompagna Eminem. Non c’è più religione.

Inutile dire che queste 2 ore e 40 sono molto pesanti, anche perché, siccome il film va avanti per inerzia anche dopo 10 minuti, non ti dà mai la sensazione di “ah ecco adesso siamo quasi alla fine”, perché tutto il film sembra la parte centrale. La struttura della storia è abbastanza fottuta e ci ritroviamo con 10 minuti di introduzione con Tom Hanks impazzito, 2 ore e 20 di svolgimento, e 10 minuti di conclusione (stavolta con Tom Hanks morto).

Sono fermo sul parere che i film biografici di artisti musicali siano il genere più piatto e deludente che sta prendendo sempre più piede nel cinema, facendo incetta di soldi e di premi anno dopo anno. È la ricetta perfetta per accaparrarsi i fan dell’artista e fare incassi facili, lasciando da parte qualsiasi parvenza di originalità e, in questo caso, di narrativa. Vi saluto, sperando di non dover recensire la storia di qualche altro cantante.

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Lightyear

Ah, gli spin-off, questo gran mistero. Una leggenda dice che, quando uno spin-off viene creato, gli dèi lanciano una moneta: se esce testa sarà un bel film, se esce croce sarà un film del cazzo. Una via di mezzo non esiste. Agli dèi è stata data questa difficile scelta con il nuovo film Pixar, Lightyear, cioè il film che ha ispirato il giocattolo di Toy Story. Per quanto questo film fosse innecessario, beh, al lancio della moneta è uscito testa.

Buzz Lightyear atterra, con altri Space Rangers, su un pianeta sconosciuto. Vengono attaccati da mostri e, durante la fuga, Buzz fa un incidente e distrugge il cristallo per la guida a velocità luce. Questo errore obbliga tutto l’equipaggio a dover ricostruire la nave e trovare un modo per creare un altro cristallo. Ma c’è un problema: per Buzz nello spazio passano solo pochi minuti, sul pianeta in realtà passano anni. Buzz fa il possibile per trovare una soluzione al problema che ha causato, mentre gli anni passano e il nuovo mondo cambia.

Avevo zero aspettative per questo film. Toy Story è bello così com’è e non si sentiva assolutamente il bisogno di sapere perché il giocattolo di Buzz esiste, quindi il film mi dava la sola impressione del classico mangiasoldi (che probabilmente è, ma almeno è bello). È in realtà molto sorprendente. La trama è, soprattutto per almeno i primi 30 minuti, molto particolare. Vediamo tutti i tentativi di Buzz di arrivare a velocità luce nello spazio e, ogni volta che tornava sul pianeta, per i suoi amici passato 4 anni. La società evolve, i suoi amici invecchiano, ma lui rimane sempre fisso con il voler trovare una soluzione, persino con tutti questi cambiamenti davanti ai suoi occhi. Solo quando si è già inoltrati nella trama troviamo personaggi secondari che accompagneranno il nostro eroe nella sua missione, ma fino a lui abbiamo solo Buzz, e il suo senso di colpa per quello che ha fatto.

Questa trama è ancora più strana se si pensa che è un film Pixar. Sono un grandissimo fan, ma mi rendo conto che seguono sempre lo stesso filo e lo stesso tipo di film. Lightyear, per quando sembri un film casuale, è invece abbastanza complesso (come la Pixar ci insegna in ogni suo film d’animazione) e più originale di quello che ci si aspettava. Alla base del messaggio è il dover essere in grado di accettare i propri errori.

Dopo l’incidente di Buzz, tutta la colonia presente nella nave è rimasta bloccata in questo pianeta inospitale. Inizialmente, era un obbligo trovare un modo per scappare da lì e tornare alla “civiltà”. Più Buzz fa tentativi nello spazio, più il tempo sul pianeta passa, e la gente si abitua a quella situazione. Tutti tranne Buzz. Ogni volta che torna, vedendo la gente invecchiare e la colonia cambiare, si sente solo più in colpa di quello che ha fatto, nonostante le vite dei suoi amici stiano lentamente migliorando nel loro nuovo mondo. Per quelli che sul pianeta sono 4 anni, per lui sono solamente 4 minuti, e lui sta indirettamente perdendo tutta la sua vita per cercare di risolvere l’errore che ha commesso (ormai) anni fa.

Da qui, spoiler – Si viene poi a conoscenza di Zurg, il cattivo con cui già abbiamo familiarità da Toy Story. E se ci ricordiamo bene Toy Story 2, sappiamo pure che è il padre di Buzz. Beh, a quanto pare è una cazzata, perché Zurg è in realtà il Buzz del futuro. Tormentato dal trovare una soluzione, continua ad andare sempre più avanti nel futuro, finché la tecnologia è talmente avanzata che trova una macchina del tempo (in realtà non è così semplice ma ve la faccio breve). È quindi deciso a tornare indietro a quando ha fatto l’incidente per evitare che accada, ma non ci riesce senza un nuovo cristallo, ed è qui che incontra il nostro Buzz, creando una nuova linea temporale. Quindi il Buzz del presente, dopo aver conosciuto i nipoti dei suoi vecchi amici (che si, sono già morti, ed hanno avuto famiglia), vede questa versione di sé stesso completamente ossessionata dall’errore commesso, e si rende conto delle vite che verrebbero distrutte se l’incidente venisse cancellato.

Insomma, come dicevo all’inizio, la storia è abbastanza complessa e molto particolare, soprattutto per un film d’animazione. Anche per quanto riguarda la comicità, che di solito è presente in quasi tutti i personaggi dei film Pixar, qui è ridotta al minimo soltanto in un gattino robot (che fa veramente molto ridere). Per quanto sia raro che gli dèi facciano uscire testa nel loro lancio della moneta, stavolta hanno fatto veramente centro.

Top Gun: Maverick

Sinceramente: ho zero interesse per questo tipo di film. Qualche anno fa ho visto Top Gun e già quello non mi aveva entusiasmato particolarmente (non ha una trama o sbaglio?). Nonostante tutto, sono andato, anche se con un po’ di riluttanza, a vedere questo sequel.

È da quando è uscito che ha delle ottime recensioni, viene chiamato il miglior sequel della storia eccetera eccetera. Non si può negare che Maverick riprende in pieno lo stile dell’originale. Mi ricordo pochissimo del primo film, ma tutte le scene con citazioni dirette si riconoscono dal primo secondo. E a parte questo non saprei cos’altro dire.

Esattamente come il primo, la trama è un po’ traballante: Maverick è il solito combinaguai che fa quello che vuole, i suoi superiori lo sanno ma nonostante cio è troppo bravo per essere licenziato, e va a così a ripetizione per 2 ore. Stavolta ha il difficile compito di dover insegnare ai nuovi cadetti della Top Gun come compiere una missione impossibile (riferimenti ad altri film puramente casuali). Lasciamo da parte la prevedibilità del film (è ovvio che sarà lui a capo della missione anche se all’inizio gli viene negato), la prima ora e mezza ha messo alla prova la mia concentrazione. Lui insegna ai cadetti, loro fanno cose spericolate, il suo capo si incazza, e il cerchio ricomincia.

Ovviamente il fulcro del film sono proprio le lezioni. Dal momento che un personaggio sale su un F-14 (ho visto Top Gun e sono un esperto di aerei da guerra!) il film cambia completamente. Esattamente come il primo, le scene negli aerei sono impressionanti, anche perché ti spiegano per filo e per segno quello che loro devono riuscire a fare, e ti rendi conto di quanto sia veramente una missione impossibile (riferimento ancora casuale). Per essere molto pignoli si potrebbe dire che si, sono delle scene veramente fighe, ma a cui si può dare lo stesso livello di qualità di quelle del primo, un film del 1986. Non ho la più pallida idea di come sia stato girato il primo film, ma le scene in volo lasciano veramente a bocca aperta. Lo stesso vale per questo film, dove sappiamo che sono aerei veri. Quindi, molto figo, ma in regola a quello che ci si aspetta.

Ultimo paragrafo per parlarvi di Maverick in persona. Tutti i personaggi del film gli dicono che ad un certo punto sto povero cristo dovrà farsene una ragione e andare in pensione, ma lui proprio non ne vuole sapere. Non capisco dove vogliono andare con questo personaggio: lui continua imperterrito a fare quello che vuole e, nonostante le conseguenze, riesce sempre ad uscirne. Anche all’ultimo, quando sembra finalmente di aver accettato la pensione, anche dopo consiglio di Iceman, ritorna e diventa capo della missione impossibile. Basta, sei vecchio, smettila, eddai. Speravo pure in una conclusione un po’ poi corretta per il personaggio. In un momento abbastanza tragico in cui si sacrifica per un personaggio, per nessun motivo è ancora vivo, anche dopo farsi sparare da un elicottero da guerra. Ecco, quando il film ha cominciato ad essere un po’ meno realistico del solito, mi è dispiaciuto. Sarebbe stato bello vedere che, nonostante tutti provassero a fargli cambiare idea, lui muore facendo quello che più ama. Ma no, sopravvive e continua a cazzeggiare.

Tenete conto che questo genere di film in generale non mi piace, quindi mi è molto difficile trovare delle cose positive da scrivere. Se non siete d’accordo, commentate che leggiamo tutto.

Everything Everywhere All at Once

Il film più discusso dell’anno finalmente arriva sull’Hateful Blog. E c’è veramente tanto di cui parlare. È dal 2016, con Swiss Army Man, che i Daniels non tornavano sul grande schermo, e questa attesa è valsa ogni minuto. La protagonista è Evelyn, una donna cinese che si è trasferita da anni in America con suo marito Waymond e sua figlia Joy. Hanno una lavanderia a gettoni che, tra il caos generale, Evelyn fa il possibile per tirare avanti. È il momento di fare le tasse ma, una volta arrivati dalla responsabile (una grandissima Jaime Lee Curtis), succede qualcosa: Waymond cambia completamente, come posseduto, e dice a Evelyn che lei è l’unica che può salvare tutti gli universi dal cattivissimo Jobu Tupaki, un personaggio con il potere di vivere tutti gli universi contemporaneamente e di controllarli.

Non so nemmeno da dove iniziare per raccontare questo film. Cercherò di dire il meno possibile perché vi consiglio vivamente di correre a vederlo! È da anni che non si vedono film che rinnovano qualcosa, e appena ti ritrovi un film come questo rimani a bocca aperta. Ci sono tantissime idee che, a mano a mano che vai avanti, vengono raccontate e usate, una dopo l’altra, aumentando la difficoltà e la profondità di quello che già sta succedendo. A volte mi domando come alcune persone riescano ad arrivare a certe idee. Beh, in questo film ne è pieno. E personalmente adoro quando un film è guidato da una piccola idea che viene sfruttata al 100%.

Provo ad andare per ordine. Alla base del film ci sono più o meno 3 cose: il rapporto difficile di una madre con la figlia, le scelte che si fanno nella vita e il nichilismo.

Evelyn e Joy non vanno d’accordo. La madre fa il possibile per mandare avanti la baracca, mentre Joy fa il possibile per vivere una vita normale con la sua ragazza. La madre nasconde persino la sua omosessualità al nonno. Le due, semplicemente, non si capiscono, sono troppo distanti e non riescono in nessun modo ad avvicinarsi.

Evelyn scopre l’esistenza di milioni di universi differenti, in cui anche una minuscola scelta cambia il percorso di una vita intera. Tutto viene messo in discussione. Il passato, il futuro, le scelte fatte, le conseguenze avute, il senso di continuare a vivere in un posto in cui non si è veramente felici.

Il Jobu Tupaki è un essere onnipresente, vive contemporaneamente in tutti gli universi ed è capace di cambiare gli oggetti a suo piacimento da un universo all’altro. Nella sua vita con tutto, cerca un senso. Decide di prendere tutto e metterlo in un unico posto. Crea così il Bagel, una sorta di ciambella, che contiene tutto. Diventa però un buco nero che piano piano risucchia ogni cosa.

Questo è il contesto generale in cui si muove la storia: Evelyn viaggia mentalmente da un universo all’altro, prendendo nuove conoscenze e vivendo nuove vite, così da diventare abbastanza forte per sconfiggere il Jobu Tupaki. Si troverà di fronte a mille vite, completamente diverse da quella che sta vivendo, solo per qualche piccolo dettaglio diverso. Perché continuare? Perché non restare in un universo in cui sono ricco e faccio una bella vita?

In un certo senso, il film esplora in una maniera molto complessa il senso della vita. Il modo in cui accettiamo determinate cose solo perché viviamo e dobbiamo continuare a vivere, senza che nessuno ci obblighi. (Da qui un po’ di spoiler). Il Jobu Tupaki, da essere onnipresente, non riesce più a vivere in questo modo. Non vede più un senso perché ha letteralmente visto tutto, e ha pure creato tutto grazie al Bagel. Ma com’è possibile che una ciambella, che ha per definizione un buco al suo interno, contenere tutto se il centro è vuoto? Eppure è proprio lei che contiene letteralmente tutto. Ed è proprio questo essere a rappresentare il nichilismo: aver vissuto ed aver visto così tanto da non voler più vivere, avendo perso il senso maggiore della vita.

Evelyn è l’esatto opposto, ed è grazie al marito Waymond che lo capisce. Il marito è un personaggio molto importante, sempre gentile e comprensivo nei confronti della moglie, nonostante lui abbia chiesto il divorzio. È la sua voglia di vivere che dà forza a Evelyn e cambia il modo di lottare il Jobu Tupaki. È molto difficile da spiegare il concetto di questo film, andrebbe visto e goduto sotto ogni dettaglio.

Ma non c’è solo drammaticità, è anche una bella commedia, se mai lo vedrete preparatevi a conoscere Racacoonie, personaggio di cui spero faranno un film.

Questa recensione può essere un po’ incasinata e da tutte le parti, me ne rendo conto, ma sto ancora lentamente elaborando tutto quello che questo film vuole dirci. Se non vi piace, spero troviate qualche universo in cui ho scritto una recensione migliore.

Volete godervi questo film al cinema? Siete fortunati! Sarà presentato al festival di Neuchâtel! Vi lascio il link qui.

The Pentaverate

Ed ecco a voi la prima recensione di una serie sull’Hateful Blog! 🎉 🎉 🎉

Nella miriade di serie, miniserie e film di Netflix, ogni tanto si trova qualche piccola chicca da apprezzare. In particolare questa miniserie di sole 6 puntate, di 30 minuti l’una, creata dal grandissimo Michael Myers. È ovviamente l’unico motivo per cui l’ho guardata, già il trailer non mi convinceva molto, ma è proprio ciò che ti aspetti da un prodotto di Myers.

Trama molto semplice: dimenticate gli Illuminati. Dimenticate i Massoni. Qui esiste solo il Pentavirato: una società segreta formata da 5 membri, i migliori nei loro campi, che si definiscono “i buoni”. Non hanno interesse a conquistare il mondo o a capovolgere la società, vogliono semplicemente risolvere i più grandi problemi attuali per permettere all’umanità di prosperare. Uno dei 5 muore inaspettatamente, e il professore Hobart Clark viene chiamato (obbligato) a prendere il suo posto come esperto in biochimica. Il suo compito? Risolvere il surriscaldamento globale. Nel frattempo, un anziano giornalista canadese di una televisione locale cerca uno scoop pur di non farsi licenziare. In una Convention, grazie a un complottista, scopre la possibile esistenza del Pentavirato (“è diversa dalle altre società segrete! Questa esiste!”). Decide quindi di seguire gli indizi per smascherarla.

In questo paragrafo in cui vi ho spiegato la trama ho nominato 8 personaggi diversi. Soltanto uno di questi non è interpretato da Michael Myers. Myers interpreta i 4 membri del Pentavirato ancora in vita (tranne il novellino Hobart Clark), il giornalista canadese e pure il complottista. Fa talmente tanti personaggi che non sono nemmeno sicuro di averli nominati tutti. Sono d’accordo che all’inizio sembra un po’ troppo, anche perché, nonostante il trucco e parrucco sia fatto veramente molto bene, è abbastanza evidente che si tratta sempre della stessa persona. Nonostante ciò, chiamatemi stupido, ma rende il tutto ancora più divertente. È rimasto nella comicità anni ’90, poco più evoluta, ma vi giuro che fa morire dal ridere. Myers ha una capacità incredibile di creare personaggi completamente diversi uno dall’altro semplicemente cambiando i gesti e il modo di parlare. Quindi si, tutti si somigliano, ma vedi subito chiaramente che ti trovi di fronte a personaggi molto diversi

La trama va molto veloce e, nonostante non sia molto sviluppata, ha molti colpi di scena che devo dire mi hanno sorpreso. La storia va avanti molto in fretta, raramente si ferma per fare delle gag (si ok c’è una scena inutile con Shrek, ma Myers è la sua voce originale quindi non conta), si vede proprio come la comicità è legata direttamente alle situazioni in cui si trovano i personaggi in quel momento: non è la comicità stessa a far andar avanti la storia, ma è un modo per raccontare le situazioni. Anche in questo Myers è un maestro.

In particolare ci sono delle scene che vanno oltre la quarta parete, più volte un esecutivo di Netflix in giacca e cravatta parla a noi spettatori per scusarsi della squallida serie che stiamo guardando, in alcuni casi anche “bippando” le parolacce e rimontando scene per renderle più “inclusive”. Insomma, non sai mai cosa aspettarti, e ogni idea è meglio della precedente.

Un dettaglio che mi ha fatto morire dal ridere è la sigla iniziale, se così si può chiamare. La voce di Jeremy Irons ci introduce ogni episodi e dovrebbe dire a grandi linee la trama della serie. Beh, in breve, ogni volta Irons finisce con l’arrabbiarsi e dire tutt’altro. Vi consiglio di non saltare MAI la sigla iniziale, proprio come Irons stesso vi dice, ma di stare molto attenti! Una genialata.

Piccolo punto dolete, senza fare nessuno spoiler, è il finale. Molto frettoloso e abbastanza insulso. Vuole essere un finale progressista in una serie che di progressista non ha nulla. Per qualche motivo vuole mandare un messaggio, e lo manda in un modo completamente sbagliato. Alla fine dei titoli di coda Myers scrive che dedica la serie a tutti i giornalisti locali che vengono ignorati. Beh, guardando la serie, non si direbbe, nonostante il personaggio del giornalista sia il protagonista.

Se volete godervi delle belle risate in poco tempo, The Pentaverate è quello che fa per voi. Voglio soltanto sapere quanto avete riso nella scena del biliardo.

Occhiali Neri

Non è facile fare un film di Dario Argento, persino Dario Argento stesso non ne è più capace. Non ho iniziato il film con tante aspettative (anche vedendo il cast), ma ammetto che avevo un piccolo barlume di speranza verso quest’ultimo lavoro del grande Dario. La protagonista è Diana (Ilenia Pastorelli), una ragazza che lavora come prostituta. Si scopre all’inizio del film che a quanto pare c’è un serial killer che ammazza soltanto le prostitute. Una sera, Diana torna a casa in macchina e viene inseguita da un furgone che, tamponandola, le fa fare un incidente. Nell’incidente, va contro un altra macchina e uccide i genitori del piccolo Chin e lei risveglia cieca. Diana deve abituarsi questa nuova vita mentre il serial killer continua a cercarla.

Lo so, la trama sembra molto figa. Io l’ho visto senza sapere niente, e nel momento in cui lei diventa cieca le mie speranze sono salite alle stelle visto che era super inaspettato. Peccato che, dopo quell’evento, non succede più nulla. C’è un momento interessante in cui Diana deve effettivamente “imparare” a vivere da donna cieca, in particolare grazie all’aiuto di Rita (Asia Argento), una persona specializzata nell’aiutare i non vedenti, ma che dura veramente poco e sembra che lei in pochissimo tempo si abitua a questo stravolgimento radicale della sua vita.

Inoltre, come detto, è un film di Dario Argento, e, anche se non sai nulla del film, ti aspetto qualche caratteristica tipica del regista. Nei primi 10 minuti di film ero concentratissimo, convinto che Argento nascondeva da qualche parte l’identità del serial killer durante la scena del primo omicidio. Ma no, niente da fare. Le scene si susseguono, una dopo l’latra, per inerzia, senza nessun interesse a voler approfondire ciò che stiamo vedendo. La fotografia è in realtà molto bella, ci sono scene veramente interessanti, ma che sfocano di fronte al poco interesse che ti dà la storia.

In particolare, il personaggio del serial killer è pessimo. È vero che non bisogna per forza avere un movente o conoscere per forza l’assassino per renderlo interessante, ma in questo film non sappiamo niente di lui, è letteralmente una persona a caso. Si vede 2 volte (spoiler): una volta come cliente di Diana e una volta in cui si scopre che è il serial killer. Non sappiamo perché lo fa, o perché è particolarmente fissato con Diana, lui la cattura e basta, toh. Se ripenso agli altri classici di Argento c’è sempre un intrigo, un nodo da sciogliere, quel qualcosa che rende la storia più complessa di un semplice maniaco che gira per la città ad ammazzare la prima prostituta che passa. Per non parlare del modo in cui viene ucciso. Lui cattura Diana, ed assieme a lei anche il suo cane da guida! Che ovviamente è un cane addestrato per difenderla. Alla prima opportunità Diana gli dà l’ordine e il cane ammazza l’assassino, e tutti felici e contenti.

Non voglio divulgarmi troppo, anche perché più scrivo più faccio spoiler, ma non penso che qualcuno vedrà in ogni caso questo film. Un altro personaggio pessimo è Chin, il bambino orfano dopo l’incidente di Diana. Praticamente gira come un burattino da un posto all’altro senza nessun motivo, e non è soltanto colpa del piccolo attore, ma proprio del senso del personaggio. Inizialmente è arrabbiato con Diana per avergli ucciso i genitori, ma letteralmente 2 minuti dopo la perdona e va a vivere da lei. Sembra che nessuno avesse in chiaro quali personaggi usare per mandare avanti la storia.

Non vi racconto il finale perché è una vera chicca, chi avrà il coraggio di guardare questo film se lo godrà.

Una cosa molto positiva posso dirla, che è l’unica che ha tenuta alta la mia attenzione: la colonna sonora. Ho poi scoperto che a quanto pare giravano rumors dove dicevano che la colonna sonora di questo film avrebbero dovuto farla… i Daft Punk. Sono rimasto scioccato, per fortuna che si sono sciolti prima e si sono risparmiati sta figura. In ogni caso, quella fatta da Arnaud Rebotini è tanta roba, ve la lascio qui sotto come sempre:

The Unbearable Weight of Massive Talent

Non è facile essere Nicolas Cage. E a dircelo, è proprio lui stesso. Nicolas Cage interpreta una versione parodica di sé stesso, dove nemmeno lo spettatore riuscirà a capire quale caratteristica è tratta dal vero lui, e quale è solamente parte del film.

Non avendo visto nessun trailer e non avendo letto nulla su questo film, mi aspettavo una cosa completamente diversa da quello che ho visto. Inizialmente seguiamo Nick Cage che non riesce a equilibrare vita famigliare e vita lavorativa: perde un offerta del ruolo della vita, è pieno di debiti, e il continuo focalizzarsi sulla sua carriera distrugge completamente la relazione con sua figlia Addy. Disperato, accetta di partecipare alla festa di compleanno di un eccentrico milionario spagnolo, Javi, ovviamente sotto compenso. Nick viene però contattato dalla CIA, dicendo che Javi è in realtà a capo di un cartello ed il responsabile del rapimento della figlia del presidente spagnolo.

Ecco, diciamo che mi sarei aspettato unicamente la prima parte della trama, tutto il resto mi ha lasciato veramente molto confuso.

Ed è proprio quella prima parte che ha gli spunti più interessanti di tutto il film: noi vediamo veramente un esagerazione di quello che crediamo sia Nicolas Cage nel suo privato, fissato con il cinema e con la sua carriera, fino ad obbligare la figlia a vedere i suoi film preferiti senza rendersi conto che a lei non interessano. Questo Cage è anche tormentato da una visione di sé stesso, vestito alla Wild at Heart e ringiovanito, che gli ricorda costantemente chi è lui in realtà: un mito e una leggenda del cinema, non deve scendere a compromessi con nessuno perché lui è Nick fucking Cage.

Questa prima parte era in assoluto la più interessante. Non solo vediamo com’è difficile gestire l’equilibrio fama/famiglia che è molto spesso ignorato quando si pensa alle celebrità, ma è pure spiegato attraverso uno degli attori più amati e celebri del cinema moderno, di cui conosciamo moltissimi film, e di conseguenza moltissimi riferimenti che troviamo in questo film. La cosa diventa ancora più chiara quando appare per la prima volta la visione di Nick Cage da giovane, che sgrida il nostro Nicolas dicendo che lui è una leggenda e non deve stare alle regole degli altri ma alzarsi al di sopra di tutti e farle lui stesso. Ovviamente è una caricatura di sé stesso, ma tutto quello che noi conosciamo di Nicolas Cage (l’esagerazione, le urla, l’azione, ecc…) è riportato in questo Nick Cage come se fosse normale. La cosa divertente è che non lo metti neanche in dubbio: Nicolas Cage potrebbe benissimo essere così anche nella realtà.

Poi va alla festa di questo spagnolo, e vabbè lì la trama deraglia un po’. Diventa amico di Javi e viene poi contattato dalla CIA per aiutarli a trovare la ragazza rapita. In pratica da qui in avanti il film diventa Johnny English: Nicolas Cage si ritrova a dover fare cose da spia essendo completamente ignorante in campo. Tutto questo stratagemma viene usato come scusante per far pace con Addy, ma se all’inizio del film si aveva un minimo appiglio al realismo, viene completamente perso nella sua seconda parte. Si trasforma in un film di azione/spionaggio poco interessante, dove l’unica carta divertente rimane il fatto che è Nicolas Cage in persona ad esserne protagonista. Un gran peccato rispetto a come il film era iniziato.

Ma come viene giustificato questo cambiamento? Beh, durante la loro amicizia, Cage e Javi scrivono un film, che dovrebbe far uscire l’attore dalla sua pensione attoriale. E indovinate un po’? Ovviamente scrivono proprio questo film. Partito come un film riflessivo sulla crescita di un attore e l’amicizia con uno sceneggiatore eccentrico (Cage e Javi), per cercare di smascherare Javi, Cage lo convince ad aggiungerci una scena di rapimento. Javi, all’inizio molto contro a quest’idea, la accetta perché capisce che non c’è mercato per i film senza azione. Per un film che vada bene bisogna prendere un po’ tutti i tipi di spettatori: all’inizio hai quelli impegnati, nella seconda parte hai i fan dell’azione, ed ecco un pacchetto perfetto.

È abbastanza divertente come scenetta vedere come il film viene creato mano a mano, ma rimane comunque un po’ patetico pensare che devono giustificare metà film che di per sé non ha nulla a che fare con il resto della trama. Peccato.

Nicolas Cage e Pedro Pascal sono una coppia formidabile. Nonostante tutto, insieme fanno morire dal ridere, soprattutto in una scena in cui i due si fanno di LSD. Ma la parte migliore del film è e sarà per sempre quella dove Cage, travestito da mafioso italiano, urla CAZZO più volte pur di essere creduto come tale.

The Northman

Dopo il mini cast di The Lighthouse, Robert Eggers si è detto: mò prendo ogni attore che esiste e ci faccio un film sui vichinghi. E così è nato The Northman, dove il re vichingo Heimir viene ucciso dal fratello Fjölnir, rubandogli il trono e la moglie. Amleth, figlio di Heimir, riesce a scappare e giura vendetta nei confronti del padre.

Ogni faccia che vedrete in questo film già la conoscete, vi faccio una breve lista: Aleksander Skarsgard (Amleth), Ethan Hawke (Heimir), Nicole Kidman (la madre), Anya Taylor-Joy, Björk, Willem Dafoe e non mi ricordo più chi. Per quanto la maggior parte si possano quasi considerare come camei (Björk e Willem Dafoe si vedono magari per 10 minuti), la scena viene completamente rubata da Nicole Kidman, che finalmente torna a fare delle parti interessanti. Lei è Gudrun, regina e madre di Amleth, inizialmente legata alla famiglia e disposta a tutto pur di difenderla, ma si vedrà più avanti nel film che non tutto è come sembra. Bravissima in questo ruolo, in alcune scene faceva persino paura.

Per quanto mi riguarda, non si può dire lo stesso su Aleksander Skargsard. Chiaro che con il fisico che si ritrova può tranquillamente essere un vichingo credibile, ma anche se cambiasse espressione ogni tanto non sarebbe una cosa poi così brutta. Concordo sul fatto che il suo personaggio è distrutto dal suo stesso passato e, pur di riuscire a compiere la sua vendetta, si lascia mettere i piedi in testa da quasi tutti quelli che incontra, cercando di salire lentamente una “scala gerarchica” che gli permetterà di arrivare allo zio traditore. Può quindi avere senso il fatto che questo personaggio non mostra niente, essendo una vittima della sua stessa ricerca della vendetta, ma la cosa non è più credibile quando, dopo aver assistito a cose disumane, se ne sbatte altamente.

Al suo fianco la tanto gettonata Anya Taylor-Joy che fa l’amante di Amleth. Sinceramente, niente di speciale. Tutta la magia che lei aveva in The Witch qua non c’è, anche perché la sua qui è una parte secondaria. Poteva benissimo essere un’altra attrice, lei non ha messo niente di più e niente di meno.

Noi seguiamo Amleth sin da quando era bambino ed assiste alla morte del padre in tutto il percorso che lo porterà faccia a faccia con suo zio, l’assassino. Il film non è del tutto realistico, nel senso che sono inserite molti (ma proprio tanti) riferimenti a dei, riti e superstizioni nordiche di cui io non conosco assolutamente niente. Il nostro Amleth viene molto spesso guidato da maghi, veggenti, sensazioni o aiuti celestiali in qualche visione. Di certo questo rende il film molto più interessante di quanto possa sembrare, ma lo rende altrettanto più confusionario. In queste scene di visioni o preveggenze io prendevo un po’ le cose come me le raccontava il mago di turno, senza farmi domande sul “perché sta succedendo” o sul “come mai proprio a lui”. Avendo zero conoscenza della mitologia nordica, tutti questi riferimenti li metto, purtroppo, in secondo piano sul resto del film.

Per quanto riguarda la trama generale, il film risulta un po’ piatto. Non ci sono eventi maggiori, a parte alla fine e all’inizio del film, che ti tengono sul bordo della sedia. Noi seguiamo passo per passo Amleth, a parte qualche scena cruenta ogni tanto e le scene mitologiche, è il paesaggio islandese a farla da padrone. Sarà che la fotografia era bellissima, oppure proprio quelle scene mitologiche che aumentavano un po’ il ritmo, ma le 2 ore e 20 di questo film vengono gestite molto bene, soprattutto se si pensa alla trama che non è nulla di che.

Bisognerebbe quindi arrivare al film un po’ più preparati di quanto lo ero io al cinema, ma in ogni caso è un film che non mi è dispiaciuto, sopratutto per quanto riguarda le immagini e le performance di qualche attore. Inoltre, è sempre bello vedere qualche spargimento di sangue bello splatter sul grande schermo.