Scream

Dopo 11 anni Ghostface torna a Woodsboro, chi sarà adesso il maniaco assassino fissato con i film horror? Stavolta i protagonista sono (quasi) tutti nuovi, seguiamo in particolare Tara e Sam Carpenter. Dopo essere stata attaccata da Ghostface, Tara chiede aiuto alla sorella Sam per trovare il colpevole nella sua cerchia di amici. Sembra familiare? Beh, se avete un minimo di conoscenza sulla saga di Scream vi sembrerà più che familiare, perché è la trama base di ogni Scream. Incredibile ma vero, questa volta sono riusciti a superarsi: il film non è solo una presa in giro e una critica al cinema che sta uscendo attualmente, ma anche un tributo a tantissimi film horror, esattamente come lo Scream originale. Attenzione, non li sto mettendo allo stesso livello eh, Scream (quello del ’96) è di un altro livello rispetto a Scream (quello del 2022).

Esatto, nonostante sia Scream 5, il titolo è soltanto Scream, visto che va molto di moda riprendere il nome originale di un film nonostante ce ne siano stati molti altri in mezzo ai due. E, fidatevi, questo Scream non perde un colpo a criticare i sequel dei nostri giorni. Ovviamente fa tutto attraverso Ghostface e alla famosissima saga di film tratti dalle vicende di Scream 1, la saga di Stab (non vi sto qui a spiegare cos’è Stab, se non avete visto tutti gli Scream, vi prego recuperateli). Beh, anche di Stab hanno fatto un nuovo capitolo, l’ottavo per la precisione, ma nonostante tutto si chiama semplicemente Stab, niente di nuovo no? Persino i personaggi sono consapevoli che Ghostface questa volta non sta facendo un semplice sequel, nono, trovano persino un nome molto fancy per quello che gli sta accadendo: un legacyquel. In poche parole, il tipico personaggio professionista di film horror (RIP Randy), spiega chiaro e tondo che questo è un film legato alla saga originale, certo, non un reboot, ovviamente, ma i personaggi sono tutti nuovi, ma come?, ah no! ci sono i personaggi dei classici (da qui legacy) che aiutano i nostri nuovi beniamini. Eh niente, già qui ti pieghi in due dal ridere perché in 5 minuti hanno distrutto l’80% dei film che sono usciti negli ultimi anni: Star Wars, Ghostbusters, Creed, Blade Runner, Matrix, e così via. Certo, anche in questo Scream tornano i personaggi originali: Sidney, Gale e Dewey sono tutti lì, quindi ci mettiamo pure Scream nella lista. Persino la struttura del film riprende per filo e per segno le caratteristiche di ogni legacyquel: i giovani che si imbattono in qualcosa che non conoscono, incontrano i vecchi personaggi, loro aiutano i nuovi protagonisti, insieme sconfiggono la minaccia, i vecchi personaggi passano la torcia ai nuovi, e via con un altra saga nuova di zecca! Una volta che il film te lo sbatte in faccia non riesci e non pensarci, e per quanto siano stupide alcune cose che succedono, beh, non riesci a smettere di ridere. Non dimentichiamo inoltre una caratteristica importantissima dei legacyquel: i nuovi protagonisti scopriranno, ad un momento convenevole ovviamente, di avere un legame di sangue con i personaggi originali. Succede anche in questo film? Ma certamente! Piccolo spoiler: la protagonista è la figlia illegittima di Billy Loomis, cosa volete di meglio?

Il film non si ferma mica qui con le critiche, un tassello molto importante, come in ogni Scream, lo fa il fandome. Non è una novità, e nemmeno uno spoiler, che Ghostface è sempre qualcuno ossessionato dalla saga Stab che vuole riprendere i passi di Billy e Stu. Il film tratta in particolare i fan sempre nel discorso dei legacyquel. Perché viene fatto un legacyquel? I produttori sanno bene di non poter fare un film che è continuazione diretta degli originali, perché infastidirebbe troppo i fan e farebbe poco incasso, e non può nemmeno fare qualcosa di completamente nuovo, perché non ha abbastanza legame con il contenuto originale. Qual è la via di mezzo? Esatto, un legacyquel: una storia classica con personaggi nuovi accompagnati dagli originali. È impressionante come in questo Scream riescano a prendere per il culo così tante cose contemporaneamente.

Per il resto, fa anche parecchi richiami agli horror, anche solo per il fatto che un personaggio si chiami Wes (come Wes Craven, regista di moltissimi horror classici tra cui i 4 Scream) e che le due protagoniste fanno Carpenter di cognome (come John Carpenter, un altro regista di film horror). Altri richiami sono delle scene che prendono in giro le basi degli horror. Una in particolare dove un personaggio apparecchia la tavola e noi sappiamo che Ghostface è in casa. Ci aspettiamo un jumpscare da un momento all’altro ma, beh, non succede mai. Quindi stiamo letteralmente almeno 7 minuti a guardare un ragazzo che apparecchia la tavola. E basta. Geniale.

Non so come ci siano riusciti, ma stavolta hanno veramente preso l’essenza dello Scream originale e l’hanno modellata per criticare il cinema moderno. All’inizio sembra un film scemo ma è talmente intelligente da insultare un intero genere cinematografico di cui lui stesso fa parte. Non so ancora cosa state aspettando, andate subito a vedere Scream (2022) al cinema!

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Nightmare Alley

Sono passati 5 anni da quando Guillermo del Toro ha vinto l’Oscar per il miglior film con La forma dell’acqua e finalmente torna nell’inizio del 2022 con il suo nuovo attesissimo film. L’Oscar sembra avergli fatto una grande pubblicità perché qui, per il cast, non si è badato a spese. Sono gli anni ’40, noi seguiamo Stan Carlisle (Bradley Cooper is back), un uomo che, per scappare dal suo passato, si unisce ad un luna park itinerante. Qui conosce molti personaggi stravaganti che gli insegnano ogni genere di trucco, tra cui il mentalismo. Decide di scappare con Molly (Rooney Mara) per fare il loro numero di coppia in hotel e ristoranti e diventare famosi. Durante un esibizione, Stan conosce una psicologa (Cate Blanchett) che diventerà sua complice. Lui non ne ha mai abbastanza e usa tutto quello che gli hanno insegnato solo per diventare più ricco, ignorando gli avvisi dei suoi vecchi amici.

Ve lo dico già da subito, di “Nightmare” non ha molto, e di “Alley” men che meno. Il film dura la bellezza di 2 ore e 30 (che fine hanno fatto i bei film di 90 minuti?) e all’inizio la durata si sente. L’introduzione è molto lenta e prende almeno metà film. Di per sé il film è diviso in due: quando Stan lavora al luna park e impara i trucchi da mentalista, e quando lui e Molly vanno in città ad esibirsi e conoscono la psicologa. Non è per forza una cosa negativa il fatto che l’introduzione sia così lunga perché conosciamo veramente molto bene ogni personaggio, da cosa è spinto, perché è al luna park e cosa vuole nella vita. In più, vediamo come Stan approfitta di ogni cosa che impara durante questo lavoro e già cerchiamo di capire cosa potrà andare storto nel film. Quindi questa introduzione, in fin dei conti, apre molte porte e molte domande alle quali cerchi di dare una risposta.

Se non altro, in questo film troviamo un Guillermo del Toro classico, con una piccola differenza. Se di solito i suoi film ci fanno o sognare (la forma dell’acqua) o avere incubi per mesi (il labirinto del fauno), questo ci vuole tenere saldi con i piedi per terra. Sin dall’inizio ce lo dice chiaro e tondo: tutto quello che questi “maghi” fanno, non sono altro che trucchi, nulla è vero. Anzi, mettono pure belle proibizioni nell’uso di questi trucchi: lo spiritismo è assolutamente vietato. Anche se lo spettatore rimane affascinato da come Stan riesce ad abbindolare il suo pubblico con le sue abilità da mentalista, nella scena dopo ci viene subito spiegato come ha fatto, senza lasciare niente al dubbio. Stavolta il sogno di Guillermo del Toro è la realtà, e come la persona giusta può manipolarla a suo piacimento per fare spettacolo. Il film ha i suoi alti e bassi, ammettiamolo, bisogna arrivare almeno a metà per essere veramente presi dalla storia (per me è stato così), una volta che il film ti cattura lo fa per bene visto che ha lasciato delle belle fondamenta nell’introduzione. Il finale in particolare è una figata, però esci in ogni caso dalla sala con un po’ di amaro in bocca.

Parliamo un po’ di sto cast. Bradley Cooper era da un po’ che non lo vedevo al cinema (a parte Licorice Pizza, ma c’era tipo per 15 minuti), e non mi ha fatto entusiasmare, è abbastanza anonimo in questo film, solo alla fine dà il meglio. La vera persona che ruba la scena a tutti è Cate Blanchett, bravissima nel ruolo della psicologa misteriosa che si fa fregare da Bradley. Si porta dietro tutto il mistero da regina degli Elfi che è ineguagliabile. Sono molto triste per Toni Collette, sono un suo grande fan ma la sua non era una grande parte e ha fatto quello che ha potuto porella. I complimenti a Willem Dafoe vanno fatti che è sempre un grande continua così.

Di questo film mi è piaciuto particolarmente il finale che è una figata (non faccio spoiler tranquilli). Come dicevo prima, più o meno a tre quarti si capisce dove il film vuole arrivare, e vedi tutto che piano piano crolla, così come gli amici di Stan lo avevano avvisato. Il finale non è altri che una conseguenza diretta delle decisioni che Stan ha preso all’inizio del film. Solo una cosa dico, perché per il protagonista è veramente un tassello importante: l’alcool in questo film è veramente odiato. Stan non ne fa mai uso, e chi ne fa, beh, lo porterà a fare una brutta fine. Sembra sia la rappresentazione della perdita di controllo che può capitare ad ognuno di noi. Ogni volta che un personaggio beve, perde il controllo su quello che gli succederà, e più volte la bevanda viene marchiata dai personaggi come il veleno. (Piccolo spoiler) Stan non beve mai alcool, in una scena lo beve e da lì in avanti per lui inizia la catastrofe. Siccome per questi personaggi avere il controllo sui loro trucchi è così importante, perderlo significa smettere di vivere e finire col credere che quello che si fa è vero, non è più un trucco.

Insomma, sì il film è lento, sì il film è lungo, ma è anche bello pienotto e nonostante tutto è una visione piacevole. Andate al cinema dal 27 Gennaio per non cascare in nessun trucchetto.

Licorice Pizza

Siamo in pieni anni ’70. In un giorno di scuola, il 15enne Gary Valentine conosce la 25enne Alana Kane. Qui inizia la loro storia che ci porterà nel viaggio della loro crescita, la loro interazione con il mondo esterno ma soprattutto la loro relazione. Alana è una ragazza che cerca un posto nel mondo e vuole fuggire al più presto dalla cittadina in cui vive con i suoi genitori, mentre Gary è l’esatto opposto, un 15enne che sta iniziando una carriera da attore e coglie ogni occasione per fare conoscenze e iniziare una nuova impresa imprenditoriale. Il loro tira e molla ci tiene incollati allo schermo mentre vediamo ogni cambiamento nella loro crescita.

La trama del film, come detto prima, è molto semplice. Noi vediamo entrambi i punti di vista dei due ragazzi e vediamo come i due vivono questa relazione in modo diverso: Gary vuole che Alana sia la sua ragazza, mentre lei sa benissimo che non può mettersi con un minorenne. Nonostante tutto, si rimane in questo limbo del non-detto dove loro non si dicono mai realmente quello che pensano e quello che provano l’uno dell’altra e stanno perennemente in uno stato di gelosia verso quello che l’altro fa. Il film inoltre entra anche un po’ nell’assurdo con il personaggio di Gary. Lui è praticamente un giovane adulto: conosce tutti, ha contatti ovunque e sa esattamente come approfittare delle informazioni che riceve. Il fatto è che tutte le idee che ha le mette in atto al 100%, ed è un po’ assurdo che un 15enne apra tutto da solo due negozi che fanno un successo incredibile.

In ogni caso, tutto questo mistero attorno al personaggio di Gary ci fa capire il motivo per cui Alana è così attratta da lui: è tutto quello che lei vorrebbe essere. Lei si sente chiusa e bloccata nella sua famiglia e come unico modo per uscire pensa di dover trovare una persona che la porti via (e ci prova molto spesso nel film). Invece vede che Gary riesce a fare tutto da solo, senza nessun aiuto esterno. Non dimentichiamo che, oltretutto, Gary ha pure 10 anni in meno di Alana. Quindi oltre alla gelosia di questa relazione non corrisposta, Alana prova anche la gelosia di non riuscire ad essere come lui, bensì essere dipendente da altri pur di esaudire i suoi sogni.

Il film ti fa viaggiare in una trama molto semplice con una regia e fotografia bellissime. All’inizio non sono nemmeno riuscito a contare quanti piani sequenza ti portano dentro la scuola mentre seguiamo il primo incontro tra Alana e Gary. I due ragazzi, in particolare Alana, danno un interpretazione incredibile che va in crescendo fino al finale. Ammetto che ad un certo punto ho sentito un po’ le 2 ore e 20 di film, ma nell’ultima parte il film riprende in gran forza e ti toglie subito dalla noia.

Paul Thomas Anderson dimostra ancora una volta come basta una storia semplice scritta bene per far sognare tutti gli spettatori. Uscirà al cinema il 3 Febbraio (se ancora non lo posticipano) e vi straconsiglio di andare a vederlo.

The Rescue

Che film, che cinema, che storia!

“Rimarrò con gli occhi gonfi dal pianto per una settimana credo! Che bella cosa che sono gli esseri umani, che forza che hanno quando si mettono insieme e uniscono le forze per una ragione comune”. Scrivo così in un messaggio whatsapp durante lo scorrimento dei titoli di coda, con in sottofondo Belive di Aloe Blacc (che continuo ad ascoltare in loop e ogni volta mi viene voglia di piangere).

Lo so, non si dovrebbe recensire un film inserendo la propria opinione, bisonerebbe rimanere oggettivi, guardare il film per quello che è, e starne fuori … ma io non ci riesco, se un film scatena cosi tante emozioni in me, è un film riuscito, punto.

Cominciamo dal fatto di cronaca: estate 2018, Thailandia. Un gruppo di giovani calciatori, tra gli 11 e i 16-17 anni (si uno dei ragazzi ha “festeggiato” il suo compleanno rinchiuso nella caverna), si ritrovano intrappolati in una caverna dato che le forti piogge quell’anno arrivarono prima del previsto. La caverna lunga diversi chilometri non è ancora stata chiusa al pubblico e viene inondata dalle acque impetuose che la riempiono ad una velocità impressionante.
Viene lanciato l’allarme e Royal Thai Navy SEALs e forze speciali americane cercando di trovare i ragazzi, con la speranza di trovarli ancora in vita.
Passano i giorni, nessuna buona notizia, i ragazzi non si trovano. È qui che entrano in azione Rick Stanton e John Volanthen, due speleologi britannici che, appresa la notizia, si dirigono volontari in Thailandia. Grazie al loro aiuto, dopo 9 giorni dalla scomparsa, i ragazzi vengono ritrovati. Sono a 2 km dall’entrata della caverna, e non c’é nessun modo per estrarli vivi. Mancano 4 mesi prima che il monsone passi, l’ossigeno all’interno della caverna è al limiti della sopravvivenza, e va trovata una solutione, repidamente.
Nel cercare una soluzione, Saman Kunan, Navy SEAL thailandese, muore in un canale, ed è qui che la missone di portare i ragazzi in salvo sembra quasi impossibile… poi un’idea che pare a tutti assolutamente impossibile, pericolosa e impraticabile: sedare tutti i bambini uno dopo l’altro e trasportarli attraverso i 2 km di canale sottacqua, privi di coscienza.

Trovo incredibile come questo documentario ci lasci trasportare nella storia e ci faccia tirare un sospiro di solievo quando finalmente i ragazzi vengono trovati… ma il peggio deve ancora arrivare, trovarli vivi era la parte più semplice.
Un ansia e una tensione costante incredibile, continuiamo a chiederci anche noi come spettatori quale dovrebbe essere la prossima mossa, non crediamo la soluzione proposta sia quella giusta, e trovo sia quella la chiave incredibile della vicenda e del documentario. Nessuno ci credeva, neanche chi l’aveva pensata, era talmente assurda, talmente improponibile, che nessuno ci aveva creduto fino alla fine, era l’unica via d’uscita, era giusto tentare, ma sempre con quella paura di fondo.

Un documentario che lascia parlare le immagini, fa parlare gli autori del salvataggio, le migliaia di persone che si sono radunate insieme, per salvare quei 12 ragazzi che erano dati per morti, cosi piccoli e cosi insalvabili.
I registi, Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin, avevano vinto l’Oscar come Miglior Documentario nel 2019 con il film “Free Solo” e probabilmente saranno messi in lizza agli Academy Award 2022 con questo altro capolavoro!

Il documetnario lo potete trovare da meno di un mese su Disney+, 1 ora 1 47 minuti di tensione e magia.

P.S. PICCOLO TRIVIA
Di questa vicenda se ne è parlato tanto e ne é stato fatto un film qualche anno fa, ma la cosa interesante è che nel film non vedremo mai intervistati i ragazzi superstiti, perchè Netflix acquisitò i diritti sulle esperienze della squadra di calcio, impedendo loro di raccontare la loro storia nel film, chissà che magari tra qualche anno vedremo un documentario anche di netflix sui fatti di quell’estate thailandese del 2018?

Belfast

Tante cartoline di Belfast a colori nel 2021 sulle note blues di Van Morrison (“Down to Joy”, nominata nella categoria “Best song” – Link alla fine della recensione ASCOLTATELA), poi attraversiamo un muro e tutto d’un tratto siamo dall’altra parte. Un piano sequenza spegne i colori e ci immerge nelle strade della città nordirlandese il 15 agosto 1969.
Dall’alto vediamo bambini giocare felici in strada, gente che rientra a casa dal lavoro e macchine che sfrecciano schivando i bambini.

Poi tutto d’un tratto un gruppo di ragazzi mascherati irrompe nelle strade, montaggio serrato e tante urla. Finestre distrutte e molotov contro le auto.
Sono passati 8 minuti del film e siamo completamente immersi nella storia, da qui in avanti … poesia.

Belfast è il film con più nomination a questi Golden Globe 2022, ben 7, tutte molto meritate!

Un film che fa emozionare; il regista, Kenneth Branagh (regista di molteplici lungometraggio come “Assassinio sull’Orient Express” e attore nel personaggio di Gilderoy Allock in “Harry Potter e la camera dei segreti”) ci apre le porte della sua vita e ci racconta di se.
Ci racconta la storia semi-autobiografica di un bambino che, ancora molto piccolo, viene catapultato in un mondo complicato e violento che lo travolge senza lascargli spazio per vivere il primo amore infantile o godersi il tempo con il padre.

La Belfast in bianco e nero che viene rappresentata nel film, se pur con una tanta violenza, ci lascia sognare. Questo grazie ai piani profondi e tridimensionali davvero mozzafiato di Haris Zambarloukos (alcuni frame di seguito).

Una tipologia di film che ci lascia respirare tutto quel cinema di cui abbiamo bisogno ogni tanto. Una storia non troppo complessa, non troppi conflitti, solo una famiglia; il suo rapporto con il mondo esterno, le sue problematiche interne, le sue debolezze, i suoi momenti di felicità e la morte.

West Side Story

Il nuovo film di Steven Spielberg è il riadattamento del famosissimo musical degli anni ’60. La storia è la stessa: due gang rivali in una strada di New York, di cui una di immigrati portoricani, si sfidano per avere il controllo del quartiere. Un componente di una gang e la sorella del capo dell’altra si innamorano, cercando di rompere le divergenze e buttandosi in pieno nell’ammmòre. Ovviamente non sarà tutto così facile visto che l’odio tra le due gang è troppo forte per essere spezzato.

Io ho un grande problema, non sopporto i musical. Questo era per me un test, visto che mi piace molto Steven Spielberg mi sono detto: se nemmeno un musical di Spielberg mi piace, vabbé non c’è niente da fare, i musical non fanno per me. E purtroppo così è stato. Inoltre, prima di vedere questo film, ho pure guardato l’originale (2 ore e mezza l’originale più 2 ore e mezza questo fanno un totale di 5 ore di musical, avevo voglia di morire).

Inizio con i lati positivi: è veramente un remake fatto alla perfezione. Spielberg riprende in pieno l’ambientazione e lo spirito del film originale. A volte riprende addirittura scena per scena e battuta per battuta. Al posto di chiamarlo remake si potrebbe dire che è un rimodernamento del film del ’60, non lo rovina assolutamente e gli fa completa giustizia. Penso sia assolutamente uno dei migliori remake che io abbia mai visto. Chiaramente alcune scene sono leggermente diverse per lasciare spazio a nuove coreografie e a nuovi spazi, per esempio le canzoni America e Gee Officer Krupke si svolgono in modo diverso dall’originale ma con coreografie veramente molto belle.

Per il resto cosa devo dirvi? La trama è la stessa, le canzoni sono le stesse, e, appunto, il film è lo stesso. Quindi la fatica di stare seduto al cinema per 2 ore e mezza a guardare persone che cantano e ballano appena succede mezza cosa era tanta. È questo il mio problema con i musical: sono troppo lenti e le canzoni spiegano fin troppo della storia e dei personaggi finché sei lì fermo a fissare lo schermo semplicemente ad aspettare che ti spieghino per l’ennesima volta come si sente tal personaggi dopo tal evento con una canzone di 5 minuti. Ma questo è un mio problema personale con i musical, e che ho avuto anche con questo.

Il cast non è male, anche se chiaramente è formato per la maggior parte da ballerini (credo) ed è quindi tutto molto molto molto teatrale (come tutti i musical vabbé). Detto questo, avete capito perché i musical non sono il mio genere e, a parte il paragrafo scritto prima, non so cos’altro dire di positivo sul film. Immagino che i fan del film originale mi staranno odiando e mi dispiace molto, mi rendo conto che è un bel film con un bel messaggio, soprattutto per un film degli anni ’60, ma proprio non ci riesco.

In generale mi sembravano tutti molto scettici sul questo progetto di Spielberg, ma, musical o no, trovo che ha fatto un remake con i fiocchi che è completamente fedele all’originale e a cui non manca niente. Rimarrà nella storia come il vero West Side Story? Non penso, ma è servito comunque come monito che qualche volta si può fare un remake fatto bene.

King Richard

L’ennesimo film biografico di questo 2021 un po’ fiacco racconta la storia di Richard Williams e la sua determinazione per far diventare le sue due figlie, Venus e Serena, delle campionesse del tennis. Penso non ci sia nient’altro da dire. Il film in realtà è avvincente e a tratti pure interessante ma ha un grande problema: dura 2 ore e 25 minuti.

Infatti il film ripercorre l’adolescenza delle due ragazze ma, nonostante siano loro il fulcro del film, non sono le protagoniste, noi seguiamo solamente il padre e tutte le decisioni che ha dovuto prendere (con molta forza) per farle arrivare al livello che sono ora. La storia non ha un vero sviluppo, semplicemente succedono cose, una dopo l’altra, e così va avanti finché oh evviva sono campionesse, si finisce con un bel montaggio e la nuova canzone di Beyoncé. Nonostante io l’abbia visto solo qualche giorno fa, non mi ricordo lo svolgimento di questo film, ricordo unicamente un evento dietro l’altro, qualche discussione tra i personaggi derivate dall’evento, e via subito con qualcosa d’altro per tirare avanti il minutaggio. Così di continuo.

Ovviamente la storia rimane un minimo interessante: le ragazze che a mano a mano salgono le classifiche e la testardaggine del padre che, insistendo, le porta dove meritano di essere. Il punto è che tutto questo è interessante soltanto perché io, spettatore, so già che Venus e Serena diventeranno effettivamente campionesse del tennis, ed è bello vedere come questo è stato possibile grazie alle insistenze del padre. Ma trovo comunque un problema il fatto che lo spettatore guarda il film unicamente perché già sa come andrà a finire, e non è minimamente interessato agli eventi effettivi. Inoltre, la loro storia non è poi un granché, visto che gli è andato letteralmente tutto nel verso giusto. Non sembra esserci nessuna sfida in questo film, c’è sempre Richard in prima linea a difenderle e ad aprire la strada (a parte in un momento del film, ma vabbé poi cambia idea).

Will Smith immagino sia bravo? Non ve lo so dire con certezza perché per tutto il film fa questa faccia:

Nominato a qualche Golden Globe, tra cui miglior film drammatico, miglior attore protagonista e miglior attrice non protagonista (la madre), uno dei tantissimi film biografici di quest’anno, che si perdono come aghi in un pagliaio tra tutti quelli che guardi e nel giro di qualche settimana hai già dimenticato. Un lato positivo c’è: la nuova canzone di Beyoncé, anche questa nominata ai Golden Globe come miglior canzone, che una volta ascoltata non ti si toglie dalla testa.

CODA

Vorresti che fossi sorda?

Quando sei nata, all’ospedale, ti hanno fatto lo screening audiologico. Te ne stavi li con il tuo dolce faccino, mentre ti attaccavano elettrodi dappertutto. Io … pregavo che fossi sorda.

Dialogo tratto dal film

Buon inizio direi… anche se in realtà non è l’inizio del film, ma da questa frase possiamo iniziare a parlare di questo film, che per qualche strana ragione (ancora sconosciuta), è nominato a ben due Golden Globe: “Miglior Film Drammatico” e “Miglior attore non protagonista” per Troy Kotsur (il padre).

Siamo in America in una cittadina di pescatori, tutta la famiglia di Ruby è sordomuta tranne lei, la protagonista del nostro film (“nostro film” solo perchè è nominato ai Golden, sennò non mi sarei mai sforzato di guardarlo).


Iniziamo a conoscere la famiglia:
Ruby si sveglia alle 3 di mattina, seguiamo lei e la sua famiglia in mare per una mattinata di pesca, poi andiamo a scuola con lei che si addormenta sul banco, puzza di pesce, viene bullizzata sia dai compagni che dall’insegnante di coro (che in realtà insulta tutti in generale).
Ruby torna a casa e piange.

Beh, direte voi, storia avvincente. No infatti … e la cosa magica è che la storia non evolve per nulla durante tutti gli interminabili 111 minuti (devo ammettere che gli ultimi 15 minuti li ho guardati a 1.5 di velocità perché non ce la facevo più).

Questo sarebbe davvero un film perfetto per Disney Channel:
Abbiamo la ragazzina bullizzata a scuola, che avrà una storiella d’amore con il figo della scuola, la ragazza ha il sogno di cantare che però non può inseguire perché deve lavorare nella ditta di famiglia, avremo il conflitto in famiglia, poi il conflitto con l’insegnante, e alla fine (spoiler) tutti diventano gentili e la fanno partire per il suo sogno e viene ammessa alla scuola di canto migliore d’America.

Davvero non saprei cosa dire di questo film, trattare una tematica cosi profonda, in maniera cosi superficiale è davvero un peccato. Un film che aveva lasciato a bocca aperta parlando della stessa complessa realtà, era Sound of Metal di Darius Marder. Quello si che era un film che ti faceva immergere, che ti faceva soffrire, che ti sbatteva davvero in faccia la realtà cruda dell’essere sordi.

Tornando al film con 2 nomination di quest’anno, vorrei concludere con un altra citazione, o meglio descrizione di una scena, scena finale che da una boccata d’aria al tutto.
I due fidanzatini sono sulla scogliera dove si sono dati il primo bacio, si salutano li per l’ultima volta prima che la ragazza parta per Boston. Lei gli chiede “Verrai a Boston a trovarmi?” e lui “Non lo so … Forse scapperai via con un violoncellista che porta il borsalino” e lei di rimando “si, probabilmente”. Si baciano e si tuffano. Fine della scena. WOW, e ancora una volta rimango affascinato dalla poesia di questo film.

Tick, Tick… Boom!

La storia di come Jonathan Larson ha cambiato Broadway. Il nome non vi dice niente? Tranquilli, non siete gli unici. Anche io guardando il film non avevo la più pallida idea di chi fosse, cosa che non è cambiata molto dopo la visione del film, perché mi racconta cosa ha fatto ma l’interesse verso quello che ha fatto in ogni caso non c’è. Detto questo, “tick, tick…boom!” racconta la sua storia attraverso le canzoni scritte da lui, in particolare di due pièces teatrali: Superbia, durante il film lui sta finendo di scriverla e vuole portarla a Broadway, e tick, tick… boom, che dà il titolo al film.

Per quanto non mi piacciano i musical, questo l’ho trovato molto simpatico e abbastanza diverso ad altri musical biografici. La storia si sviluppa in due linee parallele: il passato dove lui sta scrivendo Superbia e il suo presente dove si sta esibendo con tick, tick… boom, che è un teatro proprio sulla sua vita. Le canzoni di tick, tick… boom sono quelle che noi sentiamo e che fanno andare avanti la narrazione evento dopo evento. Le canzoni sono molto particolari, alcune anche divertenti, non ci troviamo di fronte alle solite canzoni d’amore melense e tutte uguali, ma, come dice lui in una scena: “ho scritto una canzone sullo zucchero in 3 ore”. Quindi potete capire come questo elemento trovava spunto veramente in ogni cosa pur di esercitarsi a fare quello che amava.

La cosa che rende il film molto più coinvolgente è che la storia di Larson è completamente normale. Non è nessuno di speciale e, anzi, noi capiamo esattamente quello che sta passando. È da qui che nasce il “tick, tick… boom“: il tick tick di una bomba che potrebbe esplodere da un momento all’altro, è la pressione che proviamo tutti nel dover trovare i soldi per pagare l’affitto, per pagare la spesa, è la pressione nel dover portare a termine ogni compito nella data limite ma procrastinando fino all’ultimo, è la pressione di dover stare all’altezza delle proprie aspettative mentre ogni anno l’età avanza, è la pressione di dover far tutto questo mentre cerchiamo di tenere salde le nostre amicizie e avere contatti con la nostra famiglia, è la pressione della vita di ogni giorno.

La disperazione che porta questo tick tick è quello che per me rende il film molto umano (ovviamente, tralasciando le scene dove tutti cantano e ballano, per questo non mi piacciono i musical) e che ti lascia incollato allo schermo nonostante il tuo interesse per la storia è sotto zero. Ed è molto importante come cosa perché, immagino che al di fuori del Stati Uniti, soltanto gli appassionati di musical conoscano effettivamente Jonathan Larson, gli altri guardano il film per due motivi: è nominato ai Golden Globes, Andrew Garfield è protagonista. Questa resa umana della storia permette anche alle persone ignoranti nel campo (come me) di godersi il film.

Il film lo potete recuperare su Netflix, se volete trovarvi qualcosa di diverso dal solito e un musical un po’ fuori dagli schemi, proprio come Larson in persona.