Microbe et Gasoil

Film francese che apre degli interrogativi sull’amicizia, sull’adolescenza e sulla voglia di evadere da una vita monotona e distruttiva di due ragazzi della Versailles dei nostri giorni.

Gli ambienti familiari dai quali fuggono porteranno i due giovani a percorrere, insieme, un processo di maturazione, di crescita e di presa di coscienza di loro stessi e delle famiglie che li hanno cresciuti.

Il racconto è un “road movie” d’iniziazione. I personaggi subiscono o compiono un viaggio personale di maturazione girovagando per le campagne francesi. Gli incontri e scontri compiuti fanno riflettere i personaggi e di conseguenza anche lo spettatore che è totalmente immerso in un ambiente magico e giovanile.

La sceneggiatura serrata, curata dal regista stesso, trova libertà nella recitazione quasi spontanea degli adolescenti, una qualità che porta lo spettatore a non addormentarsi sulla poltrona del cinema ma lo tiene attentamente legato alla successione di eventi che avvengono nel percorso turbolento di sviluppo interiore.

In poche parole, una commedia con sfumature drammatiche che ci trasporta dentro ai problemi e attraverso le tematiche e gli interrogativi che ogni adolescente si pone nel corso della sua crescita.

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Non essere cattivo

Il film è ambientato a Ostia nel 1995, i protagonisti sono due ragazzi, Vittorio e Cesare, amici di lunga data che vivono nella malavita del paese. Cesare ha una vita molto difficile: la sorella è morta di AIDS, prima di partorire sua figlia, anche lei malata. Lui cerca di fare il possibile per portare a casa un po’ di soldi per aiutare sua mamma e la sua nipotina, ma il giro della droga è difficile e non aiuta nessuno. Vittorio invece, dopo aver conosciuto una nuova ragazza, Linda, è deciso a cambiare il suo stile di vita, abbandonare tutto e tutti per stare con lei, avere un lavoro e una vita pulita. È veramente così facile lascarsi alle spalle una vita intera? Ma, soprattutto, è così facile abbandonare un amico nella sua difficile situazione?

Il film tocca degli argomenti molto interessanti ed è girato veramente bene: le riprese sono molto curate, così come la colonna sonora. Mi è piaciuta la cura di alcuni dettagli nella fotografia, come la scena finale, quando Vittorio muore e si vede lui steso sul divano e dietro di lui una parete con un tramonto su un’isola in mezzo al mare, una scena bellissima. Le personalità dei personaggi sono descritte molto bene, con tutte le cotraddizioni dell’essere umano; gli attori sono stati veramente bravi.

Questo film potrebbe rientrare nel genere dei “gangster”, in modo diverso però, all’inizio in modo quasi ironico. I protagonisti infatti non sono i soliti signori della droga che controllano tutto e tutti, ma sono solo un gruppetto di spacciatori che viene ridicolizzato in ogni momento: non vengono fatti entrare in discoteca, non riescono a rapinare un negozietto, non sanno dove andare a vendere le pillole.
Questo gruppo potrebbe rappresentare un “nuovo” tipo di “gangster”: non riescono a raggiungere il loro scopo per colpa della droga, sono sempre fatti e di conseguenza non combinano niente, sono vittime del loro stesso commercio.

Nella seconda parte del film, l’ironia viene coperta dalla drammaticità: Vittorio fa il possibile per rendere felice la sua nuova famiglia e tutto cambia quando decide di lasciare lo spaccio e lavorare come operaio. Cesare rimane solo e cerca sostegno nell’amico che lo porta con lui al cantiere dove lavora, ma lui non perde le sue abitudini e truffa anche il capo di Vittorio mettendo a rischio il suo posto di lavoro. La storia diventa più profonda e mischia le difficoltà delle dipendenze: Cesare è sempre vissuto in questo mondo e non ne uscirà mai, Vittorio ha una nuova speranza, Linda, ma l’amicizia di Cesare lo fa ricadere nella droga nel momento più difficle per l’amico, quando muore la nipotina.

Tutti questi elementi danno una svolta alla storia: non si parla più di gangster che spacciano per la città, ma di due ragazzi che cercano di vivere una vita migliore. La dipendenza cambia, non è più legata alla droga, ma ai soldi. Tutti vogliono più soldi per poter vivere meglio, nonostante abbiano già più quello che avevano all’inizio del film. Il cambiamento dei personaggi è nettamente negativo: all’inizio sono felici per ogni cosa, ridono e scherzano sui miseri eventi che hanno passato. Quando finalmente trovano un lavoro, una famiglia e una casa, chiedono sempre di più, esattamente come prima facevano con la droga.
Il finale rivela una critica non allo spaccio, bensì alla società moderna, sempre in cerca di qualcosa in più.

Dheepan

Dheepan, film francese vincitore nella palma d’oro alla 68esima edizione del festival di Cannes, racconta la difficile storia di tre sconosciuti (Dheepan: J. Antonythasan, Yalini: K. Srinivasan e Illayaal: C. Vinasithamby) in fuga dal terrore dello Sri Lanka dei giorni nostri.
I tre, fingendosi una famiglia, riescono a fuggire. Arrivati nella periferia parigina trovano un impiego, la donna come badante di un anziano, l’uomo come custode in un palazzo e la piccola studiando il francese. Un finale coi brividi mi ha fatto gelare sulla mia poltrona rossa del cinema: il film si conclude con un’azione inaspettata, degna di un film di Jacques Audiard.

Dheepan è pieno di voglia di evadere, di scappare da un sistema chiuso, finito ma incoerente. Nell’arco di tutto il film respiriamo un’aria cupa, terrificante che ci porta nella difficile vita di periferia, segnata da pericoli costanti, aggressività alle stelle, tanta violenza e nessun benessere.

I dialoghi tra Yalini e Dheepan sono disperati, i due cercano di trovare un modo per convivere con una bambina: come allevarla nel modo gusto? Come fare a crescerla in un ambiente frequentato da gang di spacciatori?
Guardando il film in lingua originale (tamil), ho potuto seguire il timbro di voce degli attori, nonostante non capissi nessuna parola, ho carpito i concetti essenziali, ho avuto così modo di guardare il film interamente, senza seguire in modo preciso ogni parola del dialogo.

La fotografia colora l’ambiente di una Francia cupa, magari presentando una periferia stereotipata e più cupa e violenta di quanto non lo è realmente. Una periferia paragonata a quella americana, in cui regna una violenza dovuta alla droga, in cui non vi è nulla di piacevole per una famiglia proveniente da un paese in guerra.

Il film, presentato al Festival dei diritti umani di Lugano, fa riflettere sul tema dell’immigrazione. L’idea stereotipata di “immigrato” che al giorno d’oggi ci perseguita non conta gli immigrati dello Sri Lanka, solo gli africani entrano in quella categoria discriminata?